- In una cerimonia simbolica di consegna delle chiavi lo scorso 14 dicembre, il generale francese Etienne du Peyroux, capo dell’operazione Barkhane, ha salutato il nuovo comandante maliano nella base francese di Timbuctù e dato formalmente il via alle exit strategy di Parigi.
- Nel giro di un anno resteranno al massimo 2.500 unità. Al loro posto il Ciad invierà mille soldati a partire dall’inizio del 2021.
- Ma la comprensibile gioia degli abitanti con cui è stato salutato l’ingresso dei francesi nella città e le pompose cerimonie di passaggio di consegne, non riescono a nascondere il sostanziale fallimento di un’operazione di peace keeping durata oltre otto anni.
La Francia esce di scena in Mali. In una cerimonia simbolica di consegna delle chiavi lo scorso 14 dicembre, il generale francese Etienne du Peyroux, capo dell’operazione Barkhane, ha salutato il nuovo comandante maliano nella base francese di Timbuctù e dato formalmente il via alle exit strategy di Parigi.
La presenza francese ha ormai una lunga storia. Nel 2013 il presidente François Hollande ha dichiarato l’inizio di un intervento militare mirato a fermare l’avanzata della minaccia jihadista nel paese e in tutta l’area del Sahel. I militari francesi inviati in Mali e nella regione, da allora, hanno superato le 5.100 unità. Ora comincerà una progressiva diminuzione che prevede solo un presidio a ridosso delle frontiere con Burkina Faso e Niger dove saranno attive le basi di Gao, Ménaka e Gossi.
Nel giro di un anno resteranno al massimo 2.500 unità. Al loro posto il Ciad invierà mille soldati a partire dall’inizio del 2021, l’annuncio del ministro degli esteri del Mali è arrivato il 18 dicembre scorso ed è stato presentato come parte di un accordo bilaterale su richiesta del governo di N'Djamena. Alcuni giorni prima, i legionari francesi di concerto con effettivi maliani, hanno liberato Timbuctù la città all’estremo nord, in pieno deserto, dopo otto mesi di occupazione jihadista.
Missione fallita
Ma la comprensibile gioia degli abitanti con cui è stato salutato l’ingresso dei francesi nella città e le pompose cerimonie di passaggio di consegne, non riescono a nascondere il sostanziale fallimento di un’operazione di peace keeping durata oltre otto anni.
L’effettiva disfatta francese, in realtà, va inquadrata in un contesto allargato di presenza militare di forze internazionali in Mali da quando i jihadisti sono comparsi nel paese, incredibilmente massiccia e che può considerarsi se non dannosa, almeno ampiamente inutile.
Oltre ai 5.100 soldati francesi, infatti, ai quali si sono affiancati oltre mille americani, sul campo sono state schierate cellule europee unite nella Takuba, la missione multinazionale interforze che addestra militari maliani, mentre la Minusma, i caschi blu dell’Onu dislocati nel paese, conta almeno 15mila effettivi. Poi c’è Force G5 Sahel, contingente interamente africano (con militari di Ciad, Niger, Mali, Mauritania e Burkina Faso), istituito nel luglio 2017 co-finanziato da Unione europea, Stati Uniti e Arabia Saudita.
Attacchi mortali
Se non si sapesse cosa sta avvenendo in Mali da quando sul finire del 2012 è cominciata una capillare penetrazione jihadista che ha creato focolai di conflitto in varie parti del paese senza soluzione di continuità, a guardare un simile dispiegamento di forze, si tenderebbe a immaginare uno stato messo in sostanziale sicurezza.
Al contrario i gruppi estremisti islamici hanno costantemente continuato ad aumentare la loro influenza in Mali riuscendo addirittura a debordare verso i vicini Niger e Burkina Faso e la situazione di guerra de facto, specie in alcune aree, non si è mai neanche ridotta.
In meno di un decennio, circa 2 milioni di individui sono stati costretti alla fuga dalle proprie abitazioni in cerca di riparo in altre aree del Mali o nei paesi limitrofi, con una impennata di 330mila solo nel 2020, mentre si calcola che i morti abbiano superato la cifra di 15mila.
Il 2021 ha segnato la crescita nel numero di attacchi mortali messi a segno in gran parte da forze jihadiste o da bande armate in azione in Mali, in Burkina Faso e in Niger e, in parte minore, ma non risibile, da forze di governo.
Vita facile per i jihadisti
Il segreto della relativamente tranquilla longevità dei jihadisti in un’area che va allargandosi a vista d’occhio, risiede in gran parte nella incapacità dei governi di marcare la propria presenza e nella proliferazione di situazioni di instabilità politica cronica.
In Mali il primo radicamento dei fondamentalisti islamici di un decennio fa, ha sùbito vita facile. Trova un esecutivo fragile e corrotto che fa fatica ad opporre resistenza all’avanzata jihadista.
Nell’aprile del 2012, una strana alleanza tra islamisti e irredentisti Tuareg occupa il nord del paese e installa un nuovo potere approfittando della latitanza del potere centrale.
Tre mesi più tardi, i jihadisti si libereranno dei tuareg espellendoli dalla città di Gao e da molti villaggi e città del nord, e daranno vita a una forma di governo estremo che condurrà al controllo di vaste aree settentrionali.
Un controllo impossibile
È in questa fase, quando cioè è stato chiaro a tutti che l’esercito maliano non sarebbe mai stato in grado di riconquistare le zone sotto il controllo degli islamisti e che Bamako non sarebbe mai riuscita a strutturare una controffensiva politica all’altezza, che entra in gioco la Francia. Ma per tutti i restanti anni, sebbene in forme più evolute e organizzate, gli esecutivi che si succedono risultano sempre troppo deboli e concentrati su dinamiche interne piuttosto che uniti verso l’obiettivo.
Se si eccettua la capitale Bamako, nel resto del paese la presenza fisica prima che politica del potere centrale è risibile. Non ci sono poliziotti, giudici, insegnanti, non c’è personale sanitario, neanche rappresentanti politico-amministrativi, non ci sono presìdi, edifici statali.
Solo la capitale
Come riporta l’Economist in un articolo del novembre scorso che spiega perché i jihadisti continuano ad aumentare il loro radicamento in Mali e nel Sahel, poco più di due mesi fa, membri della Minusma hanno portato un governatore regionale in un villaggio nel nord-est per incontrare la popolazione: per molti degli abitanti si è trattato della prima esperienza di contatto con un loro amministratore.
Secondo le statistiche che certificano la presenza di funzionari e operatori statali nel paese, risulta che il 75 percento di loro, compresi insegnanti e personale medico, sono in servizio nella capitale Bamako. Ed è sempre alla capitale che il governo destina l’80 per cento della spesa pubblica, nonostante lì risieda solo il 13 percento della popolazione.
Lo stato, quindi, semplicemente non è presente in ampie aree del paese. In un certo senso, ha delegato alle forze militari internazionali il ruolo istituzionale quando in realtà il loro compito sarebbe unicamente combattere le insungercies e favorire la ripresa del controllo su tutto il territorio.
Colpi di stato
Nel frattempo, il succedersi di colpi di stato negli ultimi tempi, con una sequenza farsesca, ha sostanzialmente delegittimato il potere centrale e favorito l’aumento della penetrazione jihadista.
In nove mesi, dall’estate del 2020 alla primavera del 2021, si sono consumati ben due golpe. Ad agosto dello scorso anno, a seguito di elezioni molto contestate e di imponenti manifestazioni di piazza di cittadini che per mesi chiedono la sua destituzione, il presidente eletto Ibrahim Boubacar Keita viene forzato da un gruppo di ufficiali ammutinati a dimettersi.
Il governo viene sciolto e il capo dello stato, assieme ad alcuni ministri vengono posti agli arresti. I golpisti, accolti da una folla festante, promettono di riportare il paese fuori dal caos in cui era precipitato e di indire elezioni.
Assimi Goita assume l’incarico di presidente della giunta militare fino al 25 settembre 2020. Nel maggio di quest’anno, invece, lo stesso Goita arresta Bah N’Daw, presidente ad interim dal 25 settembre del 2020, e il primo ministro Moctar Ouane e si dichiara presidente della transizione. Un paese che deve presentarsi granitico contro una potenza temibile e fortemente radicata, non può permettersi instabilità. Tanto meno due colpi di stato in meno di un anno.
Come si sconfiggono i jihadisti
Sembra ormai chiaro, quindi, che i jihadisti non si sconfiggono solo sul piano militare. In alcune aree, sono loro a rappresentare una qualche forma di governance e garantire i servizi. Vengono considerati quali figure politiche e sociali di riferimento e hanno soppiantato il potere centrale e locale sostanzialmente assente.
Alla azione militare di contenimento non potrà venir meno un rilancio politico di presenza istituzionale che favorisca una ripresa economica e un ritorno graduale alla normalità legale. Il compito, a vedere l’alternarsi inquietante di attori senza legittimità politica né democratica, sembra davvero improbo.
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