- Le truppe sono entrate nella regione, controllata da M23 da oltre cento giorni, dall’Uganda.
- I giornali hanno parlato nuovamente di atrocità di massa nei villaggi a nord di Goma, la città principale del Kivu settentrionale, all’inizio di dicembre.
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In conclusione, l’attuale struttura dell’Eac non riesce ad affrontare le sfide geopolitiche a lungo termine nella regione alimentando la resilienza dei regimi non democratici. L’articolo fa parte del nuovo numero di Scenari: “La piazza e il regime”, in edicola e in digitale da venerdì 16 dicembre.
Nel vortice degli affari mondiali che hanno fatto notizia alla settantasettesima Assemblea generale delle Nazioni unite (Ag) del settembre scorso, un evento diplomatico significativo si è svolto in un luogo leggermente meno mediatizzato. A margine dell’Ag Felix Tshisekedi, presidente della Repubblica democratica del Congo (Rdc), e Paul Kagame, presidente del Ruanda, si sono incontrati in un grattacielo di Manhattan a seguito di un discreto sforzo diplomatico che la Francia ha coordinato a Kigali e Kinshasa.
Nell’incontro, comunicato alla stampa all’ultimo momento, un abbronzato Emmanuel Macron ha posato tra i due leader africani, apparentemente anticipando una soluzione pacifica all’insensato conflitto che sta dilaniando l’Ituri e il Kivu meridionale e settentrionale (le tre province orientali della Rdc) da oltre trent’anni. L’estate del 2022 ha visto una ripresa della violenza nella zona orientale della Rdc da parte di M23, un gruppo ribelle Hutu, uno dei più attivi e omicidi del Congo orientale.
Un elemento nuovo è stata la richiesta, mediante le proteste della popolazione del Congo orientale, che le autorità di Kinshasa interrompessero tutti i legami diplomatici con Kigali. A motivare questo risentimento contro il Ruanda è stato un documento delle Nazioni unite pubblicato in agosto, che confermava la fornitura di armi e i finanziamenti a M23 da parte del Ruanda.
Le accuse sono state fermamente rigettate dal presidente Kagame. Qualche giorno dopo l’Assemblea generale dell’Onu, la Comunità dell’Africa orientale (Eac), un gruppo sub regionale (che comprende Burundi, Rdc, Kenya, Rwanda, Sud Sudan, Tanzania e Uganda), ha inviato truppe a Bunagana, nella provincia settentrionale del Kivu.
Le truppe sono entrate nella regione, controllata da M23 da oltre cento giorni, dall’Uganda. In seguito, a novembre, un cessate il fuoco è stato mediato dai capi degli stati più colpiti dal conflitto. Si sono incontrati a Luanda, in Angola. Paul Kagame non era presente, ma c’era soltanto il suo ministro degli Esteri. Tuttavia, come anticipato, il cessate il fuoco è durato poco più di due giorni e le ostilità sono riprese il 25 novembre.
I giornali hanno parlato nuovamente di atrocità di massa nei villaggi a nord di Goma, la città principale del Kivu settentrionale, all’inizio di dicembre.
Questo articolo esplora come questo fallimento derivi dalle imperfezioni di fondo dei tentativi di risoluzione del conflitto, che sono legati alla mancanza di riconoscimento delle sue dimensioni geopolitiche. La strategia dell’Eac rimarrà quindi inefficace finché non riuscirà ad affrontare la devastante economia del caos e i problemi di integrazione delle province.
Il gigante con i piedi d’argilla
È ben noto che la regione orientale della Rdc è invischiata in una rete di operazioni minerarie predatorie ed è oggetto di grandi interessi di potere. Il suolo congolese contiene circa 24 trilioni di dollari in risorse minerarie non sfruttate.
Confini porosi, un’amministrazione debole e una storia etnica complessa si combinano producendo episodi di violenza.
Questo pantano è redditizio per tutti tranne che per la popolazione locale e il governo della Rdc. Almeno un quinto delle entrate minerarie è andato perso in corruzione tra il 2013 e il 2015 e quasi tutto l’oro della Rdc viene contrabbandato fuori dal paese senza entrate fiscali per il governo.
Di conseguenza, dalla fine degli anni Novanta, oltre un centinaio di milizie commettono crimini contro l’umanità, arruolando bambini soldato, compiendo rapimenti, stupri e massacri per intimidire le popolazioni locali, incentivando il trasferimento della popolazione (almeno 140mila persone sono state sfollate da luglio 2022) o la sottomissione.
Nelle tre regioni ci sono almeno 3.276 miniere nelle quali lavorano 440mila persone spesso sotto sorveglianza armata. Le milizie armate hanno costituito asset geopolitici che consentono a Ruanda e Uganda di attingere impunemente alle ricchezze congolesi. Dagli anni Ottanta e fino alla fine degli anni Novanta il settore minerario della Rdc era sull’orlo del collasso.
La ripresa della domanda globale di minerali negli anni Duemila, stimolata dalla massiccia crescita industriale della Cina, ha inaugurato una nuova èra nell’amministrazione mineraria nella Rdc con nuovi attori e una feroce concorrenza nel settore minerario. La domanda di coltan è aumentata di dieci volte a inizio Duemila.
La forte crescita della domanda globale per le ricchezze del Congo orientale ha alimentato le attività illegali, ma ha anche attirato l’attenzione delle grandi potenze. Il potere relativo di attori internazionali nella regione si è sviluppato fortemente da quando la Rdc ha ottenuto l’indipendenza.
Dopo aver restituito reperti rubati e riconosciuto un ruolo nell’assassinio di Patrice Lumumba (primo ministro dopo l’indipendenza), il Belgio non detiene più il potere nella regione come al termine dell’èra coloniale. Oggi ha ancora alcune industrie a est e sud (Forrest Group, Trademet e Traxys), ma da tempo è stato superato dalla Cina.
La Rdc è infatti un cardine della strategia di sviluppo della Cina in Africa e tra i primi destinatari di importanti accordi per le “infrastrutture minerarie”. Gli Stati Uniti invece sono un passo indietro nell’affermare la loro influenza nel settore minerario del paese; il 70 per cento delle risorse minerario della Rdc è sotto il controllo cinese (fino all’80 per cento per il cobalto), seguito da una forte presenza canadese.
La frenesia globale per le risorse, aggravata dall’invasione russa dell’Ucraina, non contribuirà poi al raffreddamento della regione. 2
Di fronte a una carenza di risorse e all’inflazione, le amministrazioni di tutto il mondo hanno rivalutato la centralità dei giudizi morali sui diritti umani. La due diligence, già quasi inesistente, potrebbe quindi essere ulteriormente eclissata da preoccupazioni economiche.
Inoltre la transizione climatica globale potrebbe aumentare di ben quattro volte entro il 2030 la domanda di cobalto, il minerale essenziale delle batterie elettriche. La Rdc ha prodotto il 74 per cento della fornitura globale di cobalto nel 2021.
Anche la domanda globale di diamanti potrebbe salire alle stelle nel momento in cui la Russia subisce il pieno effetto delle sanzioni. Ciò probabilmente aumenterà la pressione sulla regione, poiché i picchi della domanda globale di materie prime tendono ad aumentare l’attività mineraria illegale e la corruzione nella regione. Questo effetto impedisce allo stato di recuperare una parvenza di governo.
Le province orientali
Dalle origini della moderna Rdc le province orientali sono state un focolaio di instabilità per il paese dell’Africa subsahariana più vasto e senza sbocco sul mare. Dopo il ritiro ufficiale del Belgio (pur mantenendo partecipazioni elevate nella regione del Katanga), nel Kivu settentrionale sono sorte tensioni etniche come conseguenza della guerra del Kanyarwanda in Ruanda tra il 1963 e il 1965. Successivamente, le due guerre del Congo (1996-1997 e 1998-2002), che hanno coinvolto nove paesi africani, sono state direttamente innescate dalle tensioni nella regione orientale.
L’attuale presidente congolese è salito al potere a seguito di un accordo con l’erede diretto del cambio di regime del 1996, Joseph Kabila. Suo padre, Laurent Désiré Kabila, guidava l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo (Adfl) che ha rovescaito Mobutu Sese Seko nel 1997. Il movimento era partito dal Kivu meridionale e scendeva lungo il fiume Congo e il suo successo era dovuto al sostegno di Ruanda e Uganda.
Adfl ha spazzato tutta l’imponente massa continentale congolese rapidamente, in soli pochi mesi, portando alla cattura pacifica di Kinshasa nell’estate del 1997. La sconcertante facilità con cui Mobutu è stata rovesciata dagli insorti originari della lontana regione del Grande lago ha alimentato una permanente paranoia nei circoli governativi congolesi. Due anni dopo, la seconda guerra del Congo, contro Kabila, è stata appoggiata anche da Ruanda e Uganda.
Per i Kinshasan Kabila sapeva di oriente, con il suo accento e l’amministrazione piena di tutsi e banyamulenge. Questa tensione è indice di una costante in tutta la storia congolese moderna: una paralizzante mancanza di unità nazionale. Questo è il logico risultato di un Congo moderno che è stato modellato dalle fluttuanti politiche estere di attori esterni invece che dall’evoluzione storica organica verso la statualità, a partire da Leopoldo II nel 1885, poi dal Belgio e infine dal confronto tra i due poli di Stati Uniti e Unione sovietica.
La Rdc si è affidata all’influenza dall’esterno per sopravvivere sin dai postumi della sbornia post indipendenza. All’inizio degli anni Sessanta le Nazioni unite e gli Stati Uniti hanno contrastato fermamente i tentativi di secessione della provincia del Katanga appoggiati dal Belgio. Il regime di Mobutu era una cleptocrazia tenuta in vita grazie al sostegno degli Stati Uniti, ai finanziamenti del Fmi e ai mercenari sponsorizzati dalla Francia. Inoltre la Rdc comprende 250 diverse etnie e oltre 750 dialetti. Senza il supporto di poteri esterni, la Rdc che conosciamo oggi sarebbe certamente implosa negli anni Sessanta. La sovranità territoriale è stata garantita dal diritto internazionale e non dalla capacità statale sviluppata all’interno.
Il confronto col Ruanda
Mentre l’attenzione internazionale ai conflitti varia, l’integrità territoriale della Rdc è costantemente in pericolo. Il minuscolo e più omogeneo Ruanda ha invece meno difficoltà nel mantenersi unito, sebbene sia meno dotato di risorse. Più che nella Rdc le tensioni etniche sono sorte dalle distinzioni amministrative messe in vigore dall’occupazione coloniale belga, riconosciuta dalla leadership belga nel 1999. La distribuzione territoriale ha favorito alcune etnie rispetto ad altre (come gli hutu rispetto ai tutsi) in un piccolo paese agrario e senza sbocco sul mare. Ciononostante il Ruanda oggi viene rappresentato dai media occidentali come la Singapore dell’Africa sub sahariana, segnata da una riuscita transizione verso la pace e la riconciliazione dopo il genocidio del 1994, un’economia salda e una capitale pulita e sicura.
Kigali è una delle città più sicure del mondo, e la cosa potrebbe non risultare in netto contrasto con gli alti livelli di traffico di esseri umani di Kinshasa e il primo posto nell’indice globale di criminalità organizzata per l’Africa. Il divario è anche notevole nella differenza di età media e il tasso di aspettativa di vita tra i due paesi. L’accordo di Lusaka del 1999 non includeva tutti i belligeranti e, seguendo il quadro di Addis Abeba del 2013, alcuni ex miliziani sono stati reintegrati nelle Fardc (Forces armées de la république démocratique du Congo). Responsabilità e giustizia non sono quindi strutturalmente integrate nella Rdc come nel Ruanda post genocidio.
I paesi dei Grandi laghi condividono una storia politica complessa, abbondanti risorse naturali e una sovrapposizione etnica. Il risultato è un’abitudine costante di interferire negli affari interni l’uno dell’altro. Inoltre, per esportare le sue risorse, la Rdc fa affidamento sugli accessi marittimi di Mombasa (Kenya) o di Dar El Salaam (Tanzania), passando per il Burundi, l’Uganda o il Ruanda, tutti paesi che utilizzano le tasse per sfruttare questa dipendenza strategica congolese dai corridoi dell’Africa orientale. Inoltre i ribelli fuggono nelle regioni collinari vicine per condurre le loro operazioni, costituendo così un’enorme fonte di instabilità politica per tutti i paesi. Questi elementi strutturali impediscono una serena collaborazione nell’Eac.
Ripensare l’interventismo
Perché allora le grandi potenze non investono in un’amministrazione e in un apparato di sicurezza collettivo ed efficiente in una regione così decisiva per l’economia globale? La competizione delle grandi potenze per le risorse e le difficili incursioni del passato dipendono da un’efficace cooperazione su un apparato di sicurezza. Nessuna grande potenza ha un monopolio di interessi, come la Francia aveva in Mali o gli Stati Uniti in Iraq. Oggi l’unico candidato probabile sarebbe la Cina. Tuttavia mantiene un approccio pragmatico al mantenimento della pace e non ha mai cercato una presenza militare egemonica. Cinicamente il caos resta sopportabile per la Cina fino a quando potrà mantenere il suo vantaggio economico.
Gli Stati Uniti hanno mostrato un rinnovato interesse per la situazione dal 2019, in seguito all’ascesa delle forze democratiche alleate (Adf) e alla loro dichiarazione di fedeltà allo Stato islamico. Ad ogni modo, la riduzione del coinvolgimento degli Stati Uniti all’estero, dal momento che il ritiro dall’Afghanistan ha segnato una svolta nella guerra al terrore, e le notevoli difficoltà di politica estera in altri paesi africani (Somalia, Mali, Libia) rendono gli Stati Uniti meno propensi a raggiungere uno slancio politico per un impegno proattivo nella regione. Inoltre, una tipica operazione di cambio di regime non risolverebbe la situazione, poiché non esiste un governo o un controllo efficace orchestrato da Kinshasa.
Infine, il paesaggio collinare, la geografia isolata e il clima tropicale della regione dei Grandi laghi prolungano qualsiasi conflitto e rendono difficile rimuovere le milizie che proliferano. Il controllo ufficiale del territorio da parte di Kinshasa (separata da Goma, la capitale del Kivu settentrionale, da 2.740,44 km di strade fatiscenti attraverso la foresta pluviale) è quindi estremamente difficile, per non parlare del contingente relativamente esiguo dell’Onu.
Anche se rappresenta una delle missioni più grandi dell’Onu, Monusco è una lacrima nell’oceano, poiché le tre province insieme coprono oltre 190.211 km2 e il suo sforzo consiste in appena 14.500 soldati (che dovrebbero coprire l’intero paese e hanno un mandato debole). Di conseguenza, si è instaurato un brutto atteggiamento di status quo intorno all’approccio delle grandi potenze nei confronti di una regione che è percepita ancora come permeata da un’aura di “cuore di tenebra”.
L’estate scorsa l’attenzione degli Stati Uniti si è rivolta al continente soltanto perché la Russia ha inviato Sergej Lavrov in diverse capitali africane. I paesi dell’Africa subsahariana sono ancora percepiti come una risorsa diplomatica passiva nelle sedi dell’Onu. Inoltre la corsa diplomatica è alimentata da una sete per le fonti energetiche alternative nell’era post invasione russa, con l’Arabia Saudita che ha appena pugnalato alle spalle il suo alleato americano. Le guerre diplomatiche per il territorio non ridurranno la pressione sulle fragilità geopolitiche che si celano nella regione.
Il ruolo di Mosca e Parigi
Quanto al ruolo della Francia, la spinta diplomatica fa parte della sua attuale strategia per rilanciare la rilevanza che sta svanendo in Africa. Poiché nuovi attori hanno messo in ombra i francesi, è probabile che la tecnica francese di regionalizzare la sicurezza e investire nei canali istituzionali africani porti pochi frutti. In primo luogo perché l’integrazione regionale in Africa è estremamente debole; in secondo luogo perché la Francia storicamente non ha sempre preso sul serio le organizzazioni africane nella risoluzione dei conflitti, come successo quando Parigi ha sorpassato l’Unione africana intervenendo direttamente nella crisi libica o quando è intervenuta bilateralmente in Mali nel 2013.
Nel frattempo, la Russia cerca sempre più alleati nelle principali sedi diplomatiche. Mosca sta riciclando il motivo anti colonizzazione dell’èra sovietica per sedurre le élite congolesi, cosa che sembra funzionare dal momento in cui il ministro della Difesa, Gilbert Kabanda, è andato in visita in Russia lo scorso agosto e l’aviazione congolese ha acquistato elicotteri russi lo scorso ottobre.
Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che la Russia possa emulare in occidente il modello Wagner nella Rdc, come fa in Burkina Faso, Repubblica centrafricana e Mali. Eppure al momento ha fronti più attivi e terribili su cui combattere e potrebbe gradualmente disimpegnarsi nella lontana e complessa Africa centrale.
Nodi da sciogliere
Al momento è improbabile uno scontro interstatale diretto nella regione dal momento che Kinshasa non ha i mezzi politici, militari ed economici per confrontarsi direttamente con i suoi vicini. Le contese continueranno probabilmente a cristallizzarsi attorno a scontri occasionali tra la Rdc e gli agenti ruandesi al confine, mentre gli attacchi diretti contro i civili continueranno probabilmente a proliferare.
L’appello trasmesso alla popolazione a mobilitarsi contro M23 all’inizio di novembre traduce l’impotenza dell’esecutivo congolese. In effetti, l’avvicinarsi della scadenza elettorale del 2023 incentiva Tshisekedi ad affrontare la questione con più forza, come evidenziato dalla sua dichiarazione di legge marziale lo scorso marzo e dal sostegno all’intervento regionale. Puntare il dito contro il Ruanda tuttavia è un facile modo retorico per apparire proattivi nei confronti dei mali orientali, senza mobilitare risorse per un esercito nazionale sottofinanziato.
In questo scenario Tshisekedi è stato vittima di un tentativo di colpo di stato lo scorso febbraio, durante il suo mandato dell’Unione africana ad Addis Abeba. La sua vulnerabilità amplifica l’instabilità nella parte orientale del paese. Come soluzione la Rdc si è frettolosamente unita all’Eac nell’aprile di quest’anno, ma si è fermamente opposta alla partecipazione del Ruanda all’operazione di mantenimento della pace dell’Eac.
Ad ogni modo il problema rimane irrisolto se l’Eac non risolve la faida diplomatica Ruanda/Rdc/Uganda. L’alleanza rischia quindi di non fornire altro che un multilateralismo ottico. Lo squilibrio di potere e l’asimmetria dei bisogni nell’Eac riducono la coerenza del gruppo regionale come progetto politico, e la solidità e la solidarietà del blocco in caso di shock esterni.
È importante sottolineare che gli stessi leader che hanno preso parte alla seconda guerra del Congo contro Kabila sono ancora al potere e sono membri dell’Eac e intralciano la riconciliazione delle relazioni di vicinato. Inoltre, caschi blu dell’Onu, Eac e le forze di pace cinesi hanno tutti un mandato ramificato e non possono risolvere da soli le cause geopolitiche radicate del conflitto.
In conclusione, l’attuale struttura dell’Eac non riesce ad affrontare le sfide geopolitiche a lungo termine nella regione alimentando la resilienza dei regimi non democratici. Il Consiglio di sicurezza non sta affrontando le tensioni, e ancora nessuna sanzione ha impedito ai vicini della Rdc di sostenere M23. Tale mancanza di azione strategica della comunità internazionale ricorda il ruolo di standby durante il genocidio ruandese. Pertanto, mentre scriviamo, l’economia del disastro e della sofferenza rimane fin troppo redditizia sia per gli attori regionali che per quelli internazionali.
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