- Il 30 per cento circa di quanti domenica scorsa hanno espresso la loro preferenza per Jean-Luc Mélenchon sarebbe pronto a spostarsi, il 24 aprile, sul nome di Marine Le Pen.
- Un cambio di direzione che a chi è affezionato alla dicotomia destra/sinistra appare, se non sacrilego, incredibile.
- Da più parti, ci si affretta a far notare che anche nel 2017 una quota non indifferente di simpatizzanti del tribuno della sinistra radicale si era dichiarata tentata dalla trasgressione lepenista, salvo poi ripensarci. Si può quindi scommettere che anche questa volta finirà così?
Possibile? Il dato di sondaggio divulgato dai media all’indomani del primo turno dell’elezione presidenziale francese suscita, anche al di là dei confini dell’Esagono, stupore e scetticismo: il 30 per cento circa di quanti domenica scorsa hanno espresso la loro preferenza per Jean-Luc Mélenchon sarebbe pronto a spostarsi, il 24 aprile, sul nome di Marine Le Pen.
Un cambio di direzione che a chi è affezionato alla dicotomia destra/sinistra appare, se non sacrilego, incredibile. Tanto che, da più parti, ci si affretta a far notare che anche nel 2017 una quota non indifferente di simpatizzanti del tribuno della sinistra radicale si era dichiarata tentata dalla trasgressione lepenista, salvo poi ripensarci. Si può quindi scommettere che anche questa volta finirà così?
Contro Macron
I dubbi fioccano e varie inchieste video condotte sul terreno non aiutano a scioglierli, mostrando che persino nelle zone dove il leader de La France Insoumise spopola – come il dipartimento della Seine-Sant Denis, banlieue parigina dove la popolazione immigrata è ormai maggioritaria e la sua percentuale di consensi ha sfiorato il 50 per cento - il suo invito a far sì che «a madame Le Pen non vada un solo voto», ripetuto per quattro volte durante la dichiarazione a fine scrutinio, fatica a far breccia.
Certo, molti degli intervistati, che proprio non ce la fanno a inserire nella busta da infilare nell’urna la scheda con il nome del presidente uscente, dichiarano di volersi astenere o votare bianco, ma in altri la detestazione di Macron, osteggiato ed eretto a bersaglio di continue proteste per cinque anni, suscita una voglia irrefrenabile di infliggergli una punizione.
Anche a costo di preferirgli una rivale che giornalisti e politici continuano a definire, malgrado i numerosi segnali di evoluzione, “di estrema destra”.
Perché e come ciò sia possibile, aiutano a capirlo gli studi politologici e sociologici prodotti negli ultimi dieci anni, ma anche un certo numero di fatti.
Un paese spaccato
Non è ormai un mistero che la Francia è da tempo un paese diviso, su più piani, in due versanti che non sono più separati da uno spartiacque ideologico ma corrispondono a blocchi sociali e culturali al cui interno le linee di faglia delineatesi nello scorso secolo si sono sgretolate e ricomposte. I flussi migratori prima e il conflitto tra modi di vita poi hanno scavato solchi via via sempre più profondi tra le campagne e le città, le periferie e le metropoli, i ceti professionali e i lavoratori manuali, i settori di popolazione attaccati alle tradizioni e quelli aperti alle suggestioni intellettuali di segno cosmopolita.
Le prime vittime di questo smottamento sono stati i tradizionali allineamenti partitici. A partire dalla metà degli anni Ottanta, le zone in cui le frizioni si erano fatte più acute hanno fatto registrare trasferimenti massicci di voti dalle liste del Partito comunista a quelle del Front national, che dalla marginalità dello zero virgola si è trovato ad essere proiettato sul proscenio, con risultati oltre il 15 per cento.
Il cordone sanitario eretto dalle altre forze politiche – il “fronte repubblicano” – e la legge elettorale maggioritaria (a tutti i livelli, esclusi le regionali e le europee, dove infatti il Fn ha sfondato più volte) hanno consentito di contenere il fenomeno, grazie anche alle esuberanze estremistiche di Jean-Marie Le Pen.
Da quando però, nel 2011, lo scettro del comando è passato di padre in figlia e Marine si è posta il problema di sottrarre il suo partito alla demonizzazione, spostandone la rotta dalla destra estrema ai programmi e allo stile populisti, le cose hanno iniziato a cambiare.
Nell’arco di un decennio il Front (oggi Rassemblement) national s’è guadagnato il titolo di partito più votato dalle classi popolari – ovviamente quelle autoctone. Mentre la sinistra accentuava il feeling con la borghesia, specialmente medio-alta, che i socialisti contendevano alla destra “rispettabile”.
La fase populista
Non tutti hanno digerito, nel campo progressista, questo slittamento dei referenti sociali avviatosi nell’epoca-Mitterrand, e il clamoroso esito del primo turno delle presidenziali del 2002, con la bocciatura del premier socialista Jospin e il quasi 11 per cento raccolto dai candidati trotzkisti già era suonato come un segnale d’allarme. Che Mélenchon decise di cogliere, creando prima il Parti de gauche e poi il Front de gauche, con cui si candidò all’Eliseo nel 2012.
Il suo intento era, fin dall’inizio, recuperare alla sinistra i ceti popolari che se ne erano allontanati, compito a cui le vecchie parole d’ordine erano palesemente inadeguate. È iniziata così la fase populista dello sperimentato politico di formazione trotzkista e milizia socialista, che mescolando le analisi di Ernesto Laclau, l’ammirazione per Hugo Chávez e robuste dosi di nazionalismo e animosità verso l’establishment, ha cercato di sottrarre a Marine Le Pen il ruolo di campione delle ragioni di “quelli che stanno in basso”, lanciando strali contro l’Unione europea, la tecnocrazia, i burocrati e la finanza apolide e reclamando la restituzione del potere al popolo tramite strumenti di democrazia diretta che avrebbero dovuto portare alla nascita di una Sesta Repubblica.
Cavalcando questa ondata, Mélenchon è giunto nel 2017 al 19,6 per cento alla presidenziale e ha portato il suo partito ad ottenere 17 deputati. Quei buoni risultati non sono però bastati ad indebolire la sua avversaria diretta, che meglio di lui ha saputo maneggiare il lessico populista, assicurandosi una più solida presa sulle classi subalterne.
La France Insoumise ha invece fatto progressi nei settori più politicizzati della popolazione immigrata – attirandosi l’accusa di strizzare l’occhio a frange islamiste e separatiste, sintetizzata nell’epiteto islamo-gauchiste – e fra i sostenitori delle cause Lgbt, femministe e no borders, modificando in breve tempo i suoi connotati originali e dando vita a conflitti intestini tra tendenze sempre meno compatibili. Che in alcuni casi hanno già dimostrato la vulnerabilità dell’universo mélenchonista alle sirene del populismo e del sovranismo.
Gli esempi più clamorosi sono stati le defezioni di Georges Kuzmanovic, che nel 2017 era stato il consigliere di Mélenchon per le questioni internazionali e di difesa e ha finito col dar vita ad un partitino ostile all’immigrazione e all’Ue, e di Andréa Kotarac, che è passato dal gruppo regionale lionese de LFI a quello del Rassemblement national, ma a livello locale si sono registrati vari episodi analoghi.
Il gradualismo
Nei tempi recenti, capendo di poter intercettare il “voto utile” di varie frazioni di un elettorato di sinistra sgomento di fronte all’incapacità della propria area di riferimento di convergere su una candidatura unica, Mélenchon ha ancora una volta aggiustato il tiro.
Senza sconfessare le istanze dei seguaci più radicali – ai quali ha indirizzato le sue perorazioni di una «creolizzazione» della Francia, presentata come un destino ineluttabile di commistione etnica che risolverà in via pacifica le odierne tensioni e incomprensioni tra Français de souche ed immigrati –, si è aperto ad una sorta di gradualismo riformista che, invece di promettere lo scardinamento del sistema capitalista, si propone di curarne i mali con terapie “dolci”, partendo dal contrasto del degrado ambientale e dal varo di un modello di società sostenibile.
Con questa svolta green e toni ispirati al fair play – esibiti con evidente compiacimento durante il confronto televisivo con Éric Zemmour, trasformato in dialogo tra due appassionati cultori di letture storiche –, il primo degli esclusi dal ballottaggio è riuscito a catturare un buon numero di voti che sarebbero altrimenti andati ai candidati ecologista e socialista, messi fuori gioco dai sondaggi.
E con il plateale invito a sbarrare la strada a Le Pen – e dunque a lasciarla libera a Macron – ha offerto alle formazioni più moderate della Gauche una prospettiva d’intesa per le legislative.
Può darsi che gli interlocutori raccolgano il segnale, pur sapendo che trovare un accordo sulle liste sarà tutt’altro che facile, visti i robusti appetiti dei commensali e la prevedibile scarsità delle pietanze.
Ma può darsi anche che il gesto si trasformi in un boomerang fra quegli elettori che al tout sauf Macron si erano abituati e sognavano la spallata finale contro l’odiato usurpatore del Palazzo dell’Eliseo. E che, pur a malincuore, potrebbero rassegnarsi ad utilizzare l’ariete di riserva pur di pervenire allo scopo.
© Riproduzione riservata