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L’avvocato Melley si era dimesso improvvisamente lo scorso 15 dicembre «per ragioni personali». Ma il giorno prima la Gdf lo aveva fermato a Torino per una perquisizione.
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I pm di Roma hanno aperto un fascicolo dopo un esposto contro ignoti dell’ad Dario Scannapieco, dove lamentava che i contenuti dicussi durante alcuni cda finissero poi sulla stampa.
- I magistrati indagano ipotizzando il reato di insider trading e divulgazione di notizie segrete. Sempre alta la tensione sulla partita della rete unica: governo ancora in alto mare.
La guerra dentro Cassa depositi e prestiti ha fatto la sua prima vittima eccellente. Matteo Melley, storico consigliere di amministrazione e esponente del mondo delle fondazioni che controllano quasi il 16 per cento dell’ente strategico del ministero dell’Economia, ha lasciato all’improvviso l’incarico qualche giorno prima di Natale.
«Il consigliere Melley si è dimesso dall’incarico per ragioni strettamente personali», si legge in uno stringato comunicato di Cdp del 15 dicembre, che esprime pure «il proprio ringraziamento per l’impegno profuso e per il contributo apportato».
Forse si tratta di una mera coincidenza, ma risulta a Domani che qualche ora prima delle dimissioni, subito dopo il cda riunitosi nella sede di Torino di Cassa, Melley è stato fermato dagli uomini della Guardia di Finanza, che hanno mostrato all’avvocato originario di La Spezia un decreto di perquisizione firmato dai pm della procura di Roma.
Dopo una denuncia contro ignoti fatta dall’amministratore delegato Dario Scannapieco, i magistrati di piazzale Clodio stanno in effetti indagando su chi, dentro Cdp, avrebbe fatto uscire illegalmente informazioni riservate su operazioni sensibili dell’azienda. Il fascicolo è aperto da qualche settimana, e le ipotesi di reato sono quelle di insider trading e rivelazioni di notizie segrete.
I tabulati telefonici
A Melley – che ha comunque respinto ogni addebito – gli inquirenti sarebbero arrivati attraverso l’analisi dei tabulati telefonici, che avrebbero evidenziato contatti tra il consigliere e alcuni media che avrebbero pubblicato vicende di Cdp coperte da stretto riserbo. Abbiamo provato a chiamare il dirigente uscente, che però ha preferito non rispondere alle nostre domande.
La vicenda è ancora tutta da verificare, responsabilità penali in primis, ma Cdp perde certamente una figura di peso. Melley, insieme al presidente Giovanni Gorno Tempini, rappresentava da lustri le fondazioni di origine bancaria dentro Cdp. Già presidente della fondazione Carispezia e vicepresidente dell’Acri (l’associazione guidata oggi da Francesco Profumo che raggruppa tutte le fondazioni bancarie del paese), Melley a via Goito era diventato negli anni anche presidente del Comitato di supporto e numero uno di Cdp immobiliare, uno dei principali operatori nazionali del settore property development con un portafoglio vicino ai due milioni di metri quadrati.
L’inchiesta della procura di Roma è solo agli inizi. Ma su Cdp la tensione resta altissima, soprattutto in merito alla partita della rete unica della fibra ottica. Se le strategie di Scannapieco e dei vertici della controllata Open Fiber sono criticate duramente da alcuni opinionisti e commentatori (tra i più duri Luigi Bisignani e il sito specializzato Key4Biz), il nuovo governo non ha ancora chiarito quali decisioni vuole prendere in merito a uno dei dossier economici e strategici più importanti sul tavolo dell’esecutivo.
La rete unica
Il pallino è nelle mani del ministro delle Imprese Adolfo Urso e del sottosegretario Alessio Butti, entrambi fedelissimi della premier Giorgia Meloni, che appena insediatesi hanno deciso di mandare in soffitta il memorandum tra Cdp e Tim. Un accordo preliminare che aveva come obiettivo finale l’acquisto, da parte di Cassa, dell’infrastruttura in capo alla ex Telecom. Il governo di destra aveva così fissato al 31 dicembre la scadenza per definire alla soluzione migliore per pervenire finalmente a una rete nazionale a controllo pubblico, ma a oggi – nonostante l’apertura di un tavolo tecnico – siamo ancora in alto mare.
Sullo stallo pesano soprattutto gli interessi contrapposti dell’azionista principali di Tim (i francesi di Vivendi) e quelli di Cassa, oltre alle strategie diverse dei fondi internazionali (gli americani di KKR e gli australiani di Macquarie), che oggi sono soci di minoranza di Tim e Open Fiber. Ma non aiutano nemmeno le divisioni interne alla maggioranza e al governo: Butti ha modi e uscite pubbliche (qualche settimana fa a borse aperte ha affossato sia l’ipotesi dell’offerta sia l’opa totalitaria su Tim, facendo crollare il titolo della compagnia) che non piacciono affatto a Urso e all’altro titolare del dossier, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.
Un terzetto che ha posizioni diverse anche sulla possibile sostituzione dei vertici di Cassa: se Butti sembra favorevole a un avvicendamento anticipato di Scannapieco (il draghiano scade nel 2024), Giorgetti (come dimostra con il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera, finito nel mirino di Fratelli d’Italia) è per indole e convinzione assai più conservativo. Sulla partita però i tempi non saranno eterni. Ma sarà la Meloni, in primis, a dover decidere in che modo sbrigliare l’intricata matassa.
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