Checkpoint per andare dai bambini ricoverati all’ospedale di Beit Jala e droni che volano sopra le case. È la vita di una psicologa palestinese in un villaggio vicino a Hebron, dove la Striscia si vede dalla finestra
Bwuuu. Bwuuu. È da poco passato mezzogiorno quando quello che sembra il ronzio sordo di un calabrone irrompe nella stanza. È fuori ma è come se si muovesse tra le pareti della cucina della madre di Farah. Ha appena ribaltato la maqluba dalla pentola al vassoio, con un movimento sapiente che ha permesso al riso e al pollo di mescolarsi alla perfezione.
È il piatto tipico palestinese e qui, a Tarqumiya, dieci chilometri da Hebron, in Cisgiordania, si prepara ogni volta che arriva un ospite. Anche se fuori, sopra al tetto c’è un drone che va avanti e indietro e controlla ogni spostamento.
«Lo mandano i soldati israeliani che sono qui intorno. Così vedono cosa facciamo e non hanno bisogno di muoversi». Farah ha 26 anni, è una psicologa palestinese e le basta rivolgere lo sguardo verso l’alto per dare forma a tutto quello che comporta vivere sotto controllo costante. «Alcuni giorni fa sono venuti i soldati nella casa accanto. Hanno costretto la famiglia che ci abita a stare tutto il giorno al piano superiore mentre loro sono rimasti in sala e in cucina a mangiare e ribaltare ogni cosa. Se ne sono andati via col buio».
A 50 km da Gaza
Dal 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas in Israele partito dal festival musicale Nova, sono trascorsi quasi 15 mesi. L’esercito israeliano ha ucciso nella Striscia di Gaza oltre 45mila persone. La metà sono donne e bambini. A meno di un’ora da qui ma le indicazioni stradali su Google sono oscurate. Non è possibile calcolare il percorso per raggiungerla. «Dalla mia finestra si vedono il mare e Gaza», continua Farah. «Dista 50 chilometri ma per chiunque è proibito arrivarci. Ci sono checkpoint e controlli ovunque. Ogni giorno sentiamo le esplosioni».
Una si percepisce nitidamente mentre beviamo il caffè sul terrazzo. La mamma di Farah socchiude gli occhi. «Io non riesco a dormire la notte. Mi sento in colpa. Per essere viva e per essere in casa mia, al riparo e sotto le coperte. Mentre lì, a due passi da questa strada, donne come noi, i nostri bambini, muoiono continuamente». La vegetazione intorno a casa di Farah ha il colore del giallo dei limoni e il verde opaco degli ulivi. Si perdono verso l’orizzonte, dove in lontananza s’intravede il mare.
«Tutti gli abitanti di questa zona hanno un pezzo di terra da coltivare, ulivi soprattutto. Anche noi ne abbiamo» racconta Farah mentre saliamo in macchina per spostarci verso Hebron e Beit Jala. «Ma dal 7 ottobre 2023 nessuno di noi può più avvicinarsi a quelle terre. Ci è proibito dai soldati israeliani e quando non ci sono loro, arrivano i coloni (nella West Bank sono circa 500mila, ndr), che sono anche peggio». Peggio significa più violenza, armi che sparano all’improvviso e senza nessuna ragione, intere piantagioni date alle fiamme.
Nell’ultimo anno l’Ocha (Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari) ha registrato le demolizioni senza una giustificazione militare di 1128 edifici, che hanno causato lo sfollamento forzato di 2249 palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Sono almeno 500 le vittime palestinesi nel territorio.
Quando saliamo in macchina Farah guida verso il suo posto preferito in paese. I bambini sono usciti da scuola e camminano lungo le strade. Una bandiera enorme costeggia una rotonda e ricorda che qui siamo in Palestina. Con la macchina saliamo su una collina, poi Farah spegne l’auto e fa segno di scendere. «Amo camminare nella natura e prima del 7 ottobre venivo spesso qui, tra questi alberi per fare picnic o anche semplicemente respirare un po’. Adesso questa zona è interdetta a tutti noi abitanti per “motivi di sicurezza”. Da qui si vede l’insediamento dei coloni».
Sono le case con i tetti rossi, costruite tutte seguendo la stessa linea estetica, bianche e allineate. Una strada asfaltata le attraversa. Sullo sfondo una rete svetta verso l’alto e percorre il confine stabilito nel 1967, con l’occupazione e annessione, non riconosciuta dall’Onu (come si legge nelle risoluzioni 242 e 338) dei territori palestinesi da parte di Israele. «Non venivo qui da un anno», continua Farah mentre con lo sguardo controlla ogni angolo. Intorno non c’è nessuno. Saliamo ancora un po’ e davanti a noi, in lontananza, compare un campo di addestramento militare israeliano. «Adesso andiamo via, non è sicuro qui».
Il percorso
La strada che percorriamo in auto Farah la conosce a memoria. Sono trenta chilometri che la conducono all’ospedale pubblico di Beit Jala, città a 10 km a sud di Gerusalemme, sul lato occidentale della strada per Hebron, di fronte a Betlemme. È l’ultima struttura sanitaria pubblica in Palestina in cui i bambini malati di cancro (ogni anno si stima vengano diagnosticati tumori a 250-300 minori) possono essere curati.
Ne esisteva un’altra ed era nella Striscia di Gaza ma è stata bombardata e distrutta. Il numero dei checkpoint che incontriamo per raggiungere Beit Jala è variabile. Da cinque a dieci. In tutto il territorio ce ne sono almeno settecento. «Ogni giorno ce ne può essere uno nuovo, nell’ultimo anno ne sono stati aperti e dismessi diversi. Alcune volte arrivo e li trovo sbarrati, quindi spengo la macchina e mi metto in fila, aspettando che i militari decidano se aprirlo oppure no».
Da questo dipende se Farah arriverà al lavoro, ma anche se le famiglie che segue riusciranno come lei a raggiungere l’ospedale per le sedute di chemioterapia dei loro figli. «A volte, quando mi trovo ferma ai controlli senza nessuna ragione, chiudo i finestrini e metto la musica a tutto volume. Così il tempo passa più in fretta. La vita per noi palestinesi qui è un continuo riadattare i nostri piani in base a quello che decidono loro». A ogni checkpoint che attraversiamo i militari ci guardano in faccia, non sempre chiedono i documenti, solo una volta controllano la scadenza del nostro visto giornalistico. L’ultima soldatessa ci saluta in italiano mentre tiene in bella vista il suo mitra.
In ospedale
Il successivo tratto in macchina è costeggiato da un lungo muro. «Questo è recente. L’hanno costruito così i coloni che vivono dall’altra parte non ci vedono. Serve a far dimenticare che ci siamo. Se una cosa non la vedi, non esiste». Farah usa parole precise. I suoi occhi hanno voglia di futuro ma ogni frase che pronuncia sembra chiudersi con un punto di domanda.
Qui nessuno sa cosa accadrà. Anche se negli ultimi giorni era sembrata più concreta la prospettiva di un cessate il fuoco a Gaza, chi vive in Cisgiordania ripete che il prossimo obiettivo israeliano è estendere l’occupazione in questa regione. Sta già accadendo. Dall’ottobre 2023, secondo i dati raccolti dall’ong israeliana Peace Now, Israele ha annesso più di 24 chilometri quadrati di territorio.
Quando entriamo nel reparto di pediatria oncologica dell’ospedale, Farah viene accolta da abbracci di mamme e da bambini che le corrono incontro. «È stata la mia salvezza», racconta Alaa che ha poco più di 30 anni, arriva da Hebron e ha una bambina che ha appena finito i cicli di chemioterapia per un tumore raro.
Nemmeno a loro è garantito il passaggio ai checkpoint, più di una volta hanno dovuto rimandare le cure. «Quando Alma è stata ricoverata non parlava più con nessuno e rifiutava le cure. Poi grazie a Farah ha trovato un canale di comunicazione». Farah è la prima psico-oncologa inserita in un ospedale in Palestina. È stata assunta grazie al progetto messo in piedi dalla Fondazione italiana Soleterre insieme alla rete Vis (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo). Nell’area vivono quasi tre milioni di palestinesi, di cui uno milione e 350 mila bambini.
La cooperazione
«Sostenere le bambine e i bambini malati di cancro in Palestina significa fare vincere la vita», ripete Damiano Rizzi, psicologo e presidente di Soleterre con cui siamo entrati al Beit Jala. «È un modo concreto per riuscirci». Soprattutto grazie al sostegno dei privati. Al momento infatti i fondi pubblici della cooperazione internazionale italiana per i progetti umanitari e di emergenza in Palestina sono congelati. «E non si sa fino a quando», spiega Raffaele Salinari, portavoce del Cini, il Coordinamento italiano delle Ong internazionali, che ha contattato Domani per denunciare la mancanza di sostegno alle ong che operano in Palestina da parte del governo italiano.
«È stato richiesto di inserire una clausola antiterrorismo per verificare dove finiscono i fondi e lo abbiamo fatto ma da mesi le nostre richieste vengono rimpallate e non abbiamo risposte. Perché ci sono questi ritardi a fronte di una situazione oggettivamente disastrosa? Ci sono persone che muoiono di fame, di freddo, senza cure e che non vengono aiutate da chi ha il dovere di farlo. Le ong vogliono sapere qual è il vero problema perché non crediamo che sia la forma che prende questa clausola, crediamo che sia un tema politico». Mentre scriviamo un altro ospedale, il Kamal Adwan nel nord di Gaza, è stato bombardato.
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