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Dopo la ripresa del conflitto tra Armenia e Azerbaijan, il Caucaso è divenuto un complesso teatro di crisi. Oltre ai due protagonisti, Russia, Turchia, Israele e Iran sono coinvolti in un nuovo “grande gioco” che rischia di protrarsi nel tempo.
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Tentando un’ennesima mediazione, Mosca ha offerto alle parti la sua expertise per trattare la questione dei corridoi (di trasporto ed energetici) mediante una commissione sui confini che ancora non ha ricevuto il via libera.
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In termini di politica estera pragmatica i russi sono certamente i più abili. Stupisce l’equilibrio cooperativo-competitivo che riescono a mantenere con Ankara. Allo stesso tempo colpisce l’assenza di contributi da parte occidentale.
Le guerre portano altre guerre e tendono a non finire mai. Dopo la ripresa del conflitto tra Armenia e Azerbaijan, il Caucaso è divenuto un complesso teatro di crisi. Oltre ai due protagonisti, Russia, Turchia, Israele e Iran sono coinvolti in un nuovo “grande gioco” che rischia di protrarsi nel tempo.
Malgrado le rappresentazioni che ci si possono fare, le alleanze sul campo non seguono linee di prossimità religiosa o culturale ma si saldano attorno a interessi molto concreti come il controllo delle frontiere, la continuità territoriale, la protezione delle fonti di energia, le arterie commerciali e così via.
L’aspetto più rilevante è l’imprevedibilità dell’azione politica e militare dei protagonisti. Da quando è venuto meno il controllo della Guerra fredda, al quale ogni paese doveva sottostare, oggi il disordine della globalizzazione fa sì che ogni potenza (anche quelle medie) possa far sentire la propria voce o tentare di spingere la propria agenda nazionale.
Di conseguenza la tentazione di utilizzare lo strumento militare è molto forte: basta assicurarsi una qualche forma di sodalizio (anche provvisorio) con altre potenze, in genere frontaliere ma non solo.
Una situazione ingarbugliata
Nel caos geopolitico attuale (Limes parla addirittura di caoslandia) è sufficiente procurarsi le armi giuste come i droni armati o i droni suicidi. Per avere il controllo dei cieli (è stato il caso di Baku contro Erevan) non c’è più bisogno di possedere una costosa aeronautica militare: le nuove tecnologie rendono possibili micidiali scorciatoie a prezzi contenuti. Già si era visto in mare con i barchini esplosivi o la pirateria; ora lo si nota nei cieli e tutti si sono buttati a comprare droni (turchi, emiratini, cinesi ecc.) che posseggano caratteristiche low cost.
La vittoria lampo azera tenderà a fare molti imitatori anche se va tenuto conto che per riprendersi i territori contesi e la maggior parte del Nagorno Karabakh, l’Azerbaijan ha avuto bisogno del diretto supporto politico-militare turco e non solo delle sue armi. Serve altresì rammentare che la tregua è stata imposta dalla risolutezza della Russia che minacciava di intervenire a sua volta.
Baku ha preso un’iniziativa rischiosa sorprendendo e mettendosi contro la volontà di Mosca che considera quei territori di sua pertinenza.
Ciò rende oggi insoddisfatti i turchi che sono stati estromessi come truppe di verifica e controllo della tregua e non possono sfruttare appieno quella che considerano una “loro” vittoria.
La grande potenza del Caucaso rimane la Russia che non vede di buon occhio intromissioni di alcun genere. Tuttavia la guerra ha aperto delle ferite e conseguentemente degli spazi di intervento per altri. Ecco perché le cose oggi si complicano.
L’Azerbaijan vittorioso ha appena terminato manovre militari congiunte con Turchia e Georgia. Tale “strana” alleanza ha come obiettivo ufficiale la difesa dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan considerato strategico dalle tre parti. È noto che la partita energetica è essenziale per tutta l’area, inclusi i campi di gas del Turkmenistan, i pozzi del Caspio e la famosa Tap che parte dall’Azerbaijan e giunge in Italia. La “guerra dei tubi” dal Mediterraneo si spinge fino al Caucaso. Dopo le manovre i tre paesi hanno firmato un accordo di cooperazione militare. Accanto a ciò Baku sta proseguendo la sua collaborazione in termini di tecnologia militare con Israele. Tutto questo ha provocato l’accesa protesta dell’Iran che ha lanciato improvvise manovre militari non previste lungo il confine con l’Azerbaijan.
Teheran afferma di non volere amici di Israele vicino alle sue frontiere ma in realtà teme soprattutto che l’Azerbaijan cerchi di modificare i confini con l’aiuto turco e israeliano. L’obiettivo sarebbe di annettersi prima o poi (magari a sorpresa) la striscia di territorio della provincia armena di Syunik allo scopo di creare un corridoio di continuità territoriale con la regione del Nakhchivan. Si tratta di un’altra vecchia disputa tra Baku ed Erevan mai risolta.
Dopo la recente guerra ciò che rimane del Nagorno Karabakh è legato all’Armenia da un fragilissimo budello controllato – per ora – dai russi. Anche il Nakhchivan vorrebbe connettersi alla madre-patria azera e Baku non si fida della promessa armena di autorizzare un canale terrestre per i trasporti. Una forzatura avrebbe come conseguenza di abolire il confine comune tra Armenia e Iran per stabilirne uno diretto tra Azerbaijan e Turchia. La posta in gioco strategica è che l’Iran non vuole in alcun modo essere tagliato fuori dal suo unico collegamento via terra con il Caucaso settentrionale, cioè con la Georgia e la Russia.
Gli altri nodi
Tale ingarbugliata rete di confini e passaggi mette in luce una realtà fondamentale: gli stati frontalieri del Caucaso ragionano secondo l’interesse nazionale e non per affinità ideologiche o religiose. Ecco perché l’Iran sciita e teocratico è vicino all’Armenia cristiana e non all’Azerbaijan anch’esso sciita (e sostenuto dalla Turchia sunnita).
Una lettura culturalista – o peggio ancora legata allo shock tra civiltà e religioni – non riuscirebbe a spiegare la congruità di tale incrocio di alleanze politico-militari. È evidente inoltre che l’interesse di Israele in tale competizione è rappresentato dal contenimento dell’Iran con ogni mezzo disponibile. Di conseguenza i legami tra Armenia ed Iran si stanno intensificando ma a complicare il quadro ci si mette la Georgia che sta bloccando sul suo territorio i Tir provenienti dall’Armenia in direzione Russia. Certamente pesa il vecchio contenzioso georgiano con Mosca sulla perdita dell’Abkhazia e dell’Ossezia, ma esiste anche un interesse immediato: la Georgia vuole contare nella politica energetica regionale.
Tentando un’ennesima mediazione, Mosca ha offerto alle parti la sua expertise per trattare la questione dei corridoi (di trasporto ed energetici) mediante una commissione sui confini che ancora non ha ricevuto il via libera. La Russia ha interesse a contenere l’avanzata turca nella regione ma anche a mantenere il suo controllo sull’Armenia e a rassicurare l’Iran (utile per l’Afghanistan). L’accordo di tregua tra Baku ed Erevan stipulato grazie al suo intervento è ancora troppo fragile: la guerra potrebbe ricominciare in ogni momento, tenuto conto anche dell’instabilità interna a Erevan. Dal canto suo il presidente turco Recep Erdogan ha bisogno di rilanciare la sua azione internazionale, dopo alcuni mesi di stasi dovuta anche all’esagerato allungamento delle linee di intervento, una vera e propria bulimia geopolitica.
Con il recente viaggio in Angola il leader turco riafferma la ferma volontà di contare in Africa sub-sahariana dove da tempo ha moltiplicato le rappresentanze diplomatiche (oltre 30) e ingaggiato una dura competizione con altri concorrenti, non solo occidentali. L’Africa serve a Erdogan anche perché sugli altri fronti nordafricani e mediorientali le cose – si pensi alla Libia – non vanno bene. Per Ankara la difesa dell’enclave siriana di Idlib si avvera sempre più complicata data la volontà di Damasco di riappropriarsi dell’area. Le truppe fedeli ad Assad stanno continuando ad avanzare senza tener conto degli accordi (continuamente rivisti) tra Ankara e Mosca. Quest’ultima non può opporsi ai desiderata del governo siriano anche se cerca di mantenersi in equilibrio in una situazione spinosa.
Intanto le conversazioni di Ginevra sui princìpi costituzionali avanzano molto lentamente. L’unica certezza è che ogni accordo passa per la Russia, inclusa la normalizzazione afghana. La conferenza internazionale sul futuro di Kabul si è svolta a Mosca alcuni giorni fa, terminando con la creativa formula del ministro degli esteri Serghiei Lavrov: «Riconosciamo gli sforzi ma ancora non riconosciamo lo status…».
Di questi tempi in termini di politica estera pragmatica i russi sono certamente i più abili. Stupisce l’equilibrio cooperativo-competitivo che riescono a mantenere con Ankara ed con altre potenze medie. Allo stesso tempo colpisce l’assenza di contributi da parte occidentale, frenata da modelli basati su principi certamente nobili ma totalmente inefficaci ed inoperanti in un scenario mutevole ed incostante come quello attuale.
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