- Anche l’Italia ha una presenza dal 2013 in questa che chiama “cabina di regia per le operazioni di contrasto al terrorismo, di sorveglianza dei traffici commerciali, di contrasto alla pirateria”.
- I luoghi sognati dalla fantasia di Hugo Pratt ora diventano al centro del gioco geopolitico internazionale anche per gli interessi minerari, con grandi depositi di potassimo scoperti dagli esploratori italiani durante le avventure coloniali e ora ambiti da Cina e multinazionali.
- Anche le guerre di confine tra Gibuti e la vicina Eritrea hanno radici nei tempi coloniali italiani, quando l’unico export della zona era il sale della Dancalia.
Quando il geniale Hugo Pratt disegnava le avventure di Corto Maltese, gentiluomo di fortuna, si piccava di inviarlo con la fantasia nei luoghi più esoticamente avventurosi ma anche più futilmente remoti al mondo. Inutile cercare Corto a Washington o Londra, meglio frugare tra gli atolli della Polinesia, nelle praterie della Mongolia, in un’Africa genericamente tropicale chiamata Equatoria, nelle foreste siberiane o nelle taverne maleodoranti di Gibuti. Quell’antico porto che fino al 1967 si chiamava concisamente “Territorio francese degli Afar e degli Issa”, situato alle spalle di una depressione tettonica di 50mila km quadrati (di cui 10mila sotto il livello del mare) dove il termometro varia tra i 40 e i 55 gradi e dove sopravvivono solo i dromedari, usati per trasportare lastre di sale. Insomma, un non-luogo.
Ma se Gibuti è una delle nazioni più misconosciute del mondo e il suo entroterra è stato definito dal National Geographic «il posto più crudele sulla faccia della Terra», e se fino a ieri solo Hugo Pratt lo riteneva degno di meravigliose fantasie dell’anima, come è possiblie che all’improvviso generali, diplomatici, centri-studi e maestri della geopolitica non facciano altro che parlarne come se fosse una delle capitali strategiche dove si decide il terzo millennio?
L’inchino a Gibuti
La risposta, per chi come noi crede che la politica dipenda in parte anche dalla geografia più che viceversa, parte ovviamente dalla mappa. La prima considerazione è che Gibuti ha l’onore e l’onere di ospitare l’angolo di Africa più vicino alla penisola arabica: una strozzatura di soli 30 km che divide il Golfo di Aden dal Mar Rosso e che si chiama Bab el-Mandeb. Un nome significativo: Porta del lamento funebre. Pare che a lamentarsi fossero le navi che attraversavano le sue acque difficili. Come se non bastasse, isole e isolotti (come quelli chiamati I sette fratelli) stringono ulteriormente questa strozzatura, perché alcuni punti sono larghi solo 3 km. Insomma, se si vuole navigare tra il Mediterraneo e l’Asia e l’Africa e il golfo arabico, oltre a discendere (o risalire) il Canale di Suez occorre fare l’inchino a Gibuti. Secondo qualche interpretazione, uno dei tanti motivi che hanno portato nel 2014 alla guerra in Yemen e all’intervento dei sauditi e degli emiratini è proprio la possibilità di controllare le isole yemenite che si affacciano sullo stretto del Bab el-Mandeb di fronte a Gibuti. Gli Emirati Arabi Uniti, infatti, stanno costruendo una base aerea e militare sull’isola di Mayun, dopo averla strappata ai ribelli houti nel 2015 come uno dei primi obiettivi militari del conflitto.
D’altra parte, questo ponte naturale tra Africa e Asia non è nuovo alla storia: Homo Sapiens lo usò per lasciare le savane africane e colonizzare il pianeta; il patriarca Giacobbe lo percorse nel 1900 aC per riportare le popolazioni semitiche in Africa; nel 1799 gli inglesi occuparono l’isola di Mayn, che allora si chiamava Perim per vigilare sul traffico marittimo che passava attraverso il Mar Rosso. E i francesi reagirono nel 1862 firmando trattati con vari sultani e facendone una propria colonia, con tanto di ferrovia Gibuti-Addis Abeba e di forte presenza militare da parte della mitica legione straniera. Che sbarcò a Gibuti per ricordare a Londra che Suez è interesse di tutti, non solo dei britannici. Da allora queste sono terre contese. Oggi la lite si è estesa alla Cina, che controlla il porto di Gibuti (sbocco al mare dell’Etiopia e molti altri paesi africani), ma che è in causa con Dp World, la società degli Emirati Arabi Uniti guidata dalla famiglia Sulayem (i grandi palazzinari di Dubai). Dp World controlla più di 70 porti al mondo, ma recentemente si è vista strappare Gibuti dalla Belt and road initiative, la società cinese protagonista della nuova “via della seta”. La battaglia legale coinvolge addirittura noti avvocati inglesi ora sospesi dalla professione legale in Gran Bretagna per aver falsificato prove (a favore dei cinesi).
Contesa
Così, all’improvviso, nella terra che esportava solo umili mattoni di sale scavato a mano, si sono installati tutte le potenze o aspiranti tali. Gli americani hanno 4.500 uomini in una base chiamata Campo Lemonnier, e utilizzata anche per tenere sotto controllo con i droni la vicina Somalia. A Gibuti gli Usa hanno installato anche il commando di tutte le proprie forze militari per l’Africa. La Francia ha 5mila uomini, la propria più grande base militare d’oltremare, e ha messo la base a disposizione di Spagna e Germania. La Cina ha aperto nel 2017 la sua prima base militare estera a Doraleh, guarda caso accanto al porto. Il Giappone ha fatto lo stesso. India, Arabia Saudita, Russia e Turchia seguiranno a breve. L’Italia ha dal 2013 una base militare di supporto e persino una missione addestrativa dei carabineri. Due iniziative poco pubblicizzate, ma così importanti che il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, le ha appena visitate affermando: «Gibuti è una realtà piccola ma cruciale, che in questi anni ha fatto della sua posizione nevralgica un punto d’accesso importante alla regione del Corno d’Africa e una cabina di regia per le operazioni di contrasto al terrorismo, di sorveglianza dei traffici commerciali, di contrasto alla pirateria».
Ogni base militare straniera paga al governo di Gibuti un affitto annuale. In sostanza il governo della piccolo Gibuti ne ha fatto un business da 120 milioni di dollari all’anno, cifra importante per il modesto bilancio nazionale. L’uomo che ha trasformato Gibuti si chiama Ismail Omar Guelleh (chiamato Iog), al potere da 20 anni e rieletto lo scorso aprile con il 97 per cento dei voti, e successore di suo zio Hassan Gouled Aptidon, che a sua volta era stato al potere per 20 anni. Come piacerebbe a Corto Maltese, Gibuti ha anche le sue oscure guerre di confine. Una, con l’Eritrea, è stata per il controllo dell’isola di Doumeira, che nel 1935 era stata assegnata all’Eritrea italiana da un trattato italo-francese per la spartizione delle Somalie come conseguenza della prima guerra mondiale. Ma il parlamento italiano non ratificò mai il trattato, perché le cessioni furono giudicate insufficienti, non includendo la Tunisia, la Corsica e Nizza. Così di fatto le isole sono rimaste gestite da Gibuti (erede della Somalia francese), con vari tentativi eritrei di impadronirsene con relativi scontri armati. L’Unione africana ha assegnato la mediazione al Qatar che, anche se sta dall’altra parte della penisola arabica, fa a gara con gli Emirati per diventare il guardiano del Golfo di Aden (gli Emirati hanno quasi occupato la grande e bellissima isola di Socotra e stanno costruendo basi militari nelle isole yemenite). Ma il Qatar, che prima di fatto appoggiava Gibuti, ha ritirato i propri soldati dopo che Gibuti ha appoggiato l’Arabia saudita nella disputa diplomatica e commerciale che ha portato al lungo embargo del Qatar. Tra ripicche e prove di forza, quindi, a Gibuti sbarcano militari di molte bandiere.
Esplorazioni e turismo
Ma il porto pullula anche di geologi e ingegneri. Come ha scritto un recente visitatore della Dancalia, l’italiano Gianni Tassi, «lì, sotto la crosta bollente, esiste un bacino minerario di potassio che gli esperti valutano in 105 milioni di tonnellate e che fa gola alle grandi multinazionali. Il potassio è usato in agricoltura e nella fabbricazione di esplosivi. Adesso vi hanno messo gli occhi canadesi, statunitensi e cinesi». La regione è stata esplorata per la prima volta in assoluto dalla spedizione italiana di Giuseppe Maria Giulietti, che però venne massacrato dai predoni locali. Nel 1928-29 una nuova e più organizzata spedizione guidata dal ricco avventuriero Raimondo Franchetti riuscì ad attraversarla interamente, pur registrando numerose perdite umane, entrando anche in amicizia con le popolazioni locali. Il barone Franchetti si era portato al seguito due geologi di buona famiglia, Paolo Eugenio Vinassa de Regny e l’italo-inglese Ludovico Nesbitt, esperto di miniere d’oro e di giacimenti petroliferi. Così furono proprio gli italiani a trovare il potassio, e persino a sognare di riempire la depressione dancaliana con le acque del Mar Rosso portate in questo inferno di vulcani da un canale mussoliniano che avrebbe creato un gigantesco lago per modificare e mitigare il clima della regione.
Una regione che non si ferma a Gibuti. Il cosiddetto deserto dei Dancali copre anche parte di Eritrea e di Etiopia. Al centro c’è il Piano del sale, 200 km di miniera salina a cielo aperto. Le lastre di sale, scavate a mano oggi come secoli fa, sono state fino alla seconda guerra mondiale moneta di scambio nel Corno d’Africa. I Tigrini cristiano-ortodossi rompono la crosta con lunghe pertiche, dalle sei alle dieci del mattino (dopo il caldo li farebbe impazzire). Ai musulmani Afar è riservato il compito di trasformare i lastroni in mattonelle, i “ganfur” del peso variabile da tre a sei kg. Infine i dromedari le trasportano, in carovane che – kalashnikov a parte – sembrano uscite da millenarie scene bibliche.
Intanto a Tagiura, la città più antica di Gibuti, l’Hotel Corto Maltese, ha ripreso a offrire aragoste, grigliate di pesce del Mar Rosso e straordinarie immersioni subacque. Perché la piccola Gibuti ha anche l’ambizione di diventare una destinazione turistica. Le tubature perdono, l’elettricità va e viene, e un cliente si lamenta su TripAdvisor che non esiste menu vegetariano. Posto perfetto per Corto. E per guardare con l’occhio sornione la porta del lamento funebre.
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