Giorgia Meloni ha deciso di bruciare i tempi, accelerando la sua salita a palazzo Chigi. «D’accordo con il Quirinale», spiegano a Domani fonti vicine a Sergio Mattarella «la leader di Fratelli d’Italia farà di tutto per ottenere la fiducia del nuovo governo da lei presieduto già il 18 ottobre. Un’operazione difficile, ma non impossibile».

Il 18 è un martedì che Meloni ha già cerchiato in rosso. Un guizzo che secondo Giorgia è plausibile grazie ad alcune buone notizie che le sono arrivate da Francoforte, e necessario affinché la presidente del Consiglio in pectore raggiunga due obiettivi che si è prefissata. Cioè chiudere il totoministri, che da giorni provoca fibrillazioni nella litigiosa maggioranza di destra. E presenziare come neopremier italiana al Consiglio europeo di Bruxelles del 20 ottobre, quando i capi di stato e di governo della Ue dovranno discutere e decidere sulle proposte della Commissione sulla crisi energetica, compresa la richiesta italiana e di altri partner di un tetto al prezzo del gas russo.

In molti hanno dato per scontato che sarà ancora Mario Draghi a rappresentare il paese, visto che le nuove camere si riuniranno solo il 13 e il 14 per eleggere i due nuovi presidenti di Montecitorio e di palazzo Madama.

«Ma se il blitz di Giorgia riuscisse davvero, quello di Bruxelles sarà il suo debutto internazionale. Noi sherpa stiamo lavorando affinché ce la faccia», conferma un dirigente di FdI. «Anche perché i lavori per la composizione della squadra di governo non sono in alto mare come sembra dalla lettura quotidiana dei giornali».

L’ok di Panetta

Una settimana fa abbiamo riferito come Meloni stesse lavorando notte e giorno al puzzle dell’esecutivo, spiegando che se alcuni suoi candidati avevano eccellenti possibilità di fare davvero i ministri (come Elisabetta Belloni agli Esteri, che Giorgia non intende mettere in discussione nonostante le pressioni di Antonio Tajani, o il presidente del Copasir Adolfo Urso, dato quasi certo alla Difesa o in subordine allo Sviluppo economico), altre caselle chiave erano ancora vacanti. Sette giorni dopo qualcosa è cambiato, e la lista di Giorgia si sta definendo.

La poltrona che preoccupava di più la leader era, ovviamente, quella che fu di Quintino Sella. Risulta a Domani che Fabio Panetta, ex direttore generale di Banca d’Italia e dal 2019 nel board della Bce, pochi giorni fa abbia finalmente sciolto la riserva e dato per la prima volta un sì di massima a Meloni per sedere sulla sedia del ministero dell’Economia.

Non sappiamo se il presidente della Repubblica abbia operato o meno una moral suasion sull’economista riluttante, ma di certo il tecnico ha fatto a Meloni un’apertura significativa alla proposta di nomina che finora aveva sempre rifiutato. Unica condizione: che il resto della compagine sia di alto livello.

Fino al giuramento tutto può ancora accadere, ma Meloni è fiduciosa che l’uomo che ha corteggiato strenuamente per due mesi, stimato da Mario Draghi, dalla burocrazia europea e da Christine Lagarde, sarà titolare del dicastero chiave del suo esecutivo. Maurizio Leo, come anticipato da Domani due mesi fa, sarà il vice con la delega al fisco.

È noto che Panetta avesse riserve perché consapevole che – una volta accettato il Tesoro – sarà più difficile coronare il sogno di ogni dirigente di Via Nazionale, quello di diventare un giorno governatore della Banca d’Italia. Né Meloni né altri hanno potuto garantire al banchiere che prima o poi riuscirà a sedersi nella stanza che oggi è di Ignazio Visco, ma è probabile che Panetta in futuro potrà giocarsi con le istituzioni un credito importante.

Anche perché non è un segreto che il Quirinale preferisca al Mef un profilo come il suo rispetto a quelli degli ex ministri Domenico Siniscalco (stimatissimo da Guido Crosetto, non perderà la speranza di un ritorno fino all’ultimo secondo) e l’altro papabile Giulio Tremonti.

L’altro motivo per cui Panetta non aveva sciolto la riserva era dovuto alla posizione di membro del board della Bce. Un piedistallo strategico da cui provare a difendere gli interessi italiani in merito alle politiche monetarie dell’istituto di Francoforte. Se Panetta tornasse a Roma, non è affatto sicuro che il Consiglio europeo sceglierà un altro connazionale al suo posto.

Una figura che potrebbe avere voce in capitolo nella sostituzione dell’economista in seno alla Bce è Paolo Gentiloni, ex premier e attualmente commissario europeo agli Affari economici. Con Meloni non ci sono rapporti diretti, ma Antonio Funiciello – capo di gabinetto sia con il piddino sia oggi con Draghi – ha sempre fatto da trait d’union in via ufficiosa tra le rispettive cerchie: non è impossibile che sia lui a organizzare un incontro in tempi brevi tra i due leader.

Un lavoro per Salvini

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L’apertura di Panetta ha tranquillizzato Meloni, anche perché la soluzione dell’enigma Mef scioglierebbe parecchi nodi.

La vincitrice delle elezioni proverà a venire incontro ad alcune delle richieste dei suoi alleati, ma non intende stravolgere i suoi piani iniziali. Silvio Berlusconi e Matteo Salvini fanno filtrare da giorni i loro desiderata sui media (l’ex Cavaliere ha chiesto la Farnesina per Antonio Tajani, il leghista vuole il Viminale, ed entrambi vorrebbero essere pure vicepremier), insieme a velate minacce contro l’eccesso di tecnici nel governo che vogliono «più politico».

La realtà è che il 25 settembre Lega e Forza Italia hanno perso milioni di voti dimezzando i risultati del 2018, e che in tempi di guerra tra occidente e Russia i loro due leader sono considerati da Bruxelles e Washington pericolosi filo putiniani. Meloni al contrario ha dalla sua numeri in parlamento e consenso, mentre la sua strategia di mischiare figure di rilievo ed esperti d’area con profili politici ha l’appoggio del Quirinale, di un peso massimo come Draghi e soprattutto della diplomazia americana ed europea.

«È vero, i nostri alleati possono fare come Ghino di Tacco e impedire il varo del governo», dice un importante senatore meloniano. «Ma poi dovrebbero spiegare ai loro parlamentari e ai loro elettori perché non hanno dato vita al primo governo di centrodestra eletto dal popolo dal 2008. Perché non hanno avuto le poltrone che chiedevano? Andrebbero al 2 per cento».

Insomma, Meloni accetta il braccio di ferro, convinta che le intimidazioni e le armi dei due alleati siano a salve. Dunque, nonostante le richieste, a oggi la presidente di FdI non ha alcuna intenzione di fare alcun vice premierato. Non solo. Salvini avrà un posto di rilievo al governo ma non al Viminale, dove c’è il divieto della nomenclatura di mezzo occidente per via dei precedenti burrascosi del governo Conte I (il Capitano è imputato in un processo per via dei respingimenti considerati illegali dai pm) e dei rapporti suoi e dei suoi collaboratori con i russi.

Salvini ha davanti tre strade alternative percorribili. La prima, più scontata ma non banale visto il ricco portafogli del dicastero, è quella dell’Agricoltura, che però Matteo considera una diminutio eccessiva, e dove punta a rimettere l’amico Gian Marco Centinaio. Restano così due caselle libere: quella dello Sviluppo economico (Mise) e quella del Lavoro.

Il Mise è un ministero importante, ma con un big come Panetta al Mef i margini di manovra di Salvini sarebbero limitati alle sole crisi aziendali. Così come per l’uscente Giancarlo Giorgetti che, stretto tra il ministro Daniele Franco, il Mef e il potere di Cassa depositi e prestiti, non ha quasi toccato palla. «Il Mise ha poca cassa, un’autonomia finanziaria minima, ma staremo attenti ai contratti di sviluppo industriali e al Pnrr», ha detto riservatamente un uomo della Meloni a coloro che in Confindustria temono che dando il timone in mano a Salvini di un dicastero a loro caro possa deragliare.

Anche il dicastero del Lavoro ha budget minimo, ma potrebbe affatto non dispiacere al leghista per via della tradizione sindacal-laburista che la Lega ha sempre vantato, senza dimenticare la passione per quota 100 e la volontà di superare l’odiata legge Fornero. Come ha suggerito già a fine agosto Susanna Turco sull’Espresso, alla fine Salvini potrebbe seguire la strada di Luigi Di Maio e chiedere entrambe le poltrone.

Potrebbe essere un punto di caduta onorevole per il capo del Carroccio, uscito tramortito dalle elezioni e criticato ogni giorno da pezzi del partito e gran parte della base.

Tra Tajani e Piantedosi

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Se Salvini dovesse accettare una delle proposte della premier in pectore, il resto delle caselle governative si riempirebbe rapidamente. Il leghista Edoardo Rixi è in pole per le Infrastrutture (ma qualche delega come quella sui porti andrebbe divisa con il neonato ministero del Mare), mentre Giulia Bongiorno a oggi sta perdendo il derby con Carlo Nordio per la Giustizia e finirebbe alla Funzione pubblica.

Considerando cosa probabile il ritorno di Elisabetta Belloni agli Esteri (ne è stata per anni apprezzato segretario generale), la presidente post fascista sta pensando seriamente di offrire il Viminale a Tajani. L’aspirazione a salire alla Farnesina del coordinatore di Forza Italia sarebbe da accantonare, ma il vice di Berlusconi sarebbe adeguatamente ricompensato. «È la soluzione migliore che abbiamo in tasca», dice una fonte vicinissima alla Meloni.

«Noi di Fratelli d’Italia e lo stesso Quirinale preferiremmo un tecnico, ma capiamo gli alleati che chiedono sul tema sicurezza e ordine pubblico una figura politica. Salvini si irriterebbe? Se non lo fa lui, preferisce non lo faccia nessuno dei suoi, compreso un fedelissimo come Nicola Molteni che potrebbe continuare a fare il sottosegretario».

Sul tavolo di Meloni per il ruolo c’è anche il nome del prefetto di Roma Matteo Piantedosi, civil servant che stima molto, e che ha fatto il capo di gabinetto quando Salvini era all’Interno. Dovesse andare il Viminale a Tajani, e se la Belloni giurasse come nuovo ministro degli Esteri, Piantedosi con buone probabilità non resterà in prefettura, ma verrà promosso direttore del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza che coordina le nostre due agenzie di intelligence Aise e Aisi.

A cascata, Meloni dovrà decidere chi si occuperà dell’autorità delegata oggi in mano a Franco Gabrielli. Ovvio che se mantenesse le deleghe nelle sue mani, il vero capo dei servizi sarebbe il capo del Dis, che riporterebbe direttamente al premier.

Meloni, però, preferisce trovare un sottosegretario tecnico che si frapponga tra lei e il comparto. Per un motivo semplice: crede che in caso di tensioni o scandali (come quello che colpì Giuseppe Conte all’epoca del Russiagate) lo scudo di un esperto possa proteggere il suo premierato da polemiche potenzialmente rovinose.

Per questo ha incaricato alcuni suoi uomini (come lo stesso Leo) di mettersi a cercare un prefetto all’altezza del compito. Risulta a Domani che emissari di Giorgia abbiano chiesto consiglio soprattutto a Gianni De Gennaro, ex capo della polizia, già capo dei servizi e autorità delegata ai tempi del governo Monti. A ora, il prescelto non è stato ancora trovato.

La mossa, però, sembra allontanare da palazzo Chigi Guido Crosetto, i cui rapporti altalenanti con Meloni sono stati già raccontati da questo giornale qualche giorno fa. Il suo nome per ora non è nell’elenco dei ministri preferiti da Giorgia, che forse premierà il cofondatore di FdI con un incarico importante (presidente di Leonardo?) alla prossima tornata di nomine nelle partecipate.

W lo sport

Così a palazzo Chigi potrebbero seguire Giorgia solo Giovanbattista Fazzolari, ministro dell’Attuazione del programma in pectore, e Ignazio La Russa. Qualcuno dà l’ex missino possibile nuovo presidente del Senato, ma ora il terzo big di FdI è in pole per fare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

Nel caso, chiederà una delega importante, quella dello Sport: La Russa è un terminale importante di un pezzo imprenditoriale di quel mondo (è amico di Adriano Galliani, che insieme a Barbara Berlusconi chiamò nel 2014 il giovane Geronimo La Russa a fare il consigliere di alcune società della galassia Milan), e il suo rampollo è dal 2020 influente presidente di Aci Milano, il club che gestisce l’autodromo di Monza dove si organizza il gran premio di Formula Uno.

Altro nome a cui Meloni aveva pensato per il dipartimento oggi retto da Valentina Vezzali è quello del manager d’area Andrea Abodi. Presidente dell’Istituto di credito sportivo, considerato serio e competente anche a sinistra, qualcuno in Fratelli d’Italia teme sia un eccellente battitore libero, ma poco propenso a fare gioco di squadra. Così preferirebbe che Meloni lo promuovesse a capo della Fondazione Milano-Cortina che deve organizzare le Olimpiadi invernali, piuttosto che averlo membro nel Consiglio dei ministri.

Si vedrà. Intanto se l’ex infermiera Licia Ronzulli anela ancora alla Salute (Meloni la considera inadeguata, e preferirebbe tecnici d’area come il presidente nazionale della Croce rossa Francesco Rocca), e se per l’altra forzista Anna Maria Bernini le porte di un ministero di peso medio sembra possano aprirsi senza troppi veti, c’è un altro dicastero chiave che non ha ancora il suo titolare designato. Quello della Cultura.

Una pedina che Meloni vuole usare anche per accontentare qualche scontento. Le quotazioni di Federico Mollicone (il meloniano s’è distinto di recente per un’intemerata contro il cartone animato Peppa Pig, reo di aver mostrato in una puntata «due mamme») e della leghista Lucia Borgonzoni («non leggo un libro da tre anni», si vantò una volta in radio) sono in netto calo. Così come quelle di Giampaolo Rossi, ex consigliere di amministrazione della Rai dato invece papabile come futuro dirigente (presidente o amministratore delegato) della Rai stessa.

Al contrario, salgono le possibilità del critico Vittorio Sgarbi, spendibile in quel ruolo come indipendente di Forza Italia. Qualcuno ha suggerito per il feudo di Dario Franceschini anche il nome di Giulio Tremonti, in questi giorni frustrato perché l’aspirazione di un ritorno al Mef rischia di rimanere tale, soprattutto dopo il sì condizionato di Panetta.

«Non sappiamo se alla fine Meloni gli offrirà davvero la Cultura per ammansirlo, ma fosse saggio Giulio metterebbe l’orgoglio da parte, e chiederebbe la presidenza della commissione Bilancio alla Camera. È un ruolo centrale e di raccordo tra Mef e parlamento, e Meloni gli direbbe sicuramente di sì», dice una fonte di Forza Italia che conosce benissimo l’ex ministro dell’Economia.

A caccia dei Beatles

Meloni confida che in contemporanea all’elezione dei presidenti di Camera e Senato tutte le tessere del domino governativo possano incastrarsi a dovere, in modo da presenziare lei stessa a Bruxelles al posto dell’uscente Draghi.

In molti sostengono che i suoi calcoli sono eccessivamente fiduciosi, e che per piegare Salvini, Berlusconi e Tajani le servirà maggior tempo di negoziazione. «Anche perché», aggiungono i pessimisti, «Meloni non ha ancora in tasca il team che l’accompagnerà a Chigi: le selezioni per il capo di gabinetto e per i vertici degli uffici tecnici e legislativi sono in alto mare».I tempi sono stretti, anche perché Funiciello e il sottosegretario Roberto Garofoli hanno negato qualsiasi possibilità di rimanere con la destra.

Per la cronaca i due, insieme ad altri collaboratori, hanno donato qualche giorno fa a Draghi (come regalo d’addio) la celebre copertina dell’album dei Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, quella in cui la band viene immortalata insieme ai suoi personaggi preferiti della politica e dello spettacolo.

Ovviamente, la copertina è stata riveduta e corretta: al posto delle facce dei quattro musicisti, ci sono quelle di Draghi, di Garofoli e dello stesso Funiciello, il consigliere economico Francesco Giavazzi (al posto di Ringo Starr).

Dietro di loro Franco Gabrielli, Roberto Chieppa – che è segretario generale a palazzo Chigi – il coordinatore del Comitato tecnico scientifico Franco Locatelli e la portavoce Paola Ansuini. Un album di famiglia degli uomini di punta di un governo che per mezzo mondo e gran parte degli italiani ha fatto bene, e che Meloni dovrà rimpiazzare con figure di livello, se vuole che la sua nuova avventura parta senza intoppi.

 

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