Dopo il giorno dell’unità tra la sinistra di Alexandria Ocasio-Cortez e l’establishment incarnato da Hillary Clinton, è arrivato il giorno di Barack e Michelle Obama e del loro discorso alla convention dem.

L’ex coppia presidenziale ha quindi parlato di fronte alla platea dei delegati democratici sul palco di Chicago, spingendo per l’elezione di Kamala Harris e cercando di sfruttare la loro immensa popolarità tra l’elettorato progressista. In un programma che ha visto, tra gli altri, anche gli interventi del leader dem al Senato Chuck Schumer e del senatore socialista del Vermont Bernie Sanders, lo star power degli Obama continua a brillare.

Il «ritorno» della speranza

Prima è salita sul palco Michelle, che ha silenziato l’uditorio iniziando il discorso con l’argomento della speranza che è «di ritorno» in America, alludendo sottilmente al cambio di candidato avvenuto lo scorso 19 luglio con il ritiro di Joe Biden.

Ha proseguito citando come si riesca a pensare al meglio anche nei momenti di sconforto, come lo scorso maggio quando ha perso sua madre Marian Robinson, la donna che le ha insegnato «il potere della propria voce», un potere che ha catturato anche la convention dem e che la rende una delle persone più richieste ai comizi proprio per questa efficacia che le fa raggiungere anche chi non si definisce strettamente democratico e che fa sì che qualcuno continui a chiedersi se un giorno sceglierà di correre a sua volta, ipotesi che ha sempre negato con forza.

L’intervento è poi proseguito parlando del background di Kamala Harris e di come le rispettive madri, pur essendo separate da «un Oceano», condividessero gli stessi valori di «decenza, dignità e rispetto». Poi ha alluso a Donald Trump e al suo sfruttare il suo «patrimonio generazionale» come «affirmative action» e ha smontato punto su punto la  la sua retorica divisiva facendo riferimento anche a una delle sue campagne come first lady contro il bullismo dicendo che «essere meschini non è mai la risposta», anche se il suo smontare la retorica trumpiana mostra come anche lei si sia allontanata dalla linea del 2016: «When they go low, we go high».

Bisogna rispondere agli attacchi, non perdonare chi, come lo stesso Trump, ha messo la sua famiglia in pericolo amplificando la bufala di Barack nato in Kenya. E infine, l’allusione trumpiana ai migranti che prenderebbero agli americani «i Black Jobs».

Anche la presidenza, dopo il 2008, è diventata un “Black Job”, alludendo al colore della pelle del marito.

«Yes she can»

Dopo di lei, è arrivato il discorso dell’ex presidente, che si è autodescritto come «l’unica persona così stupida da parlare dopo Michelle». Mentre gli spettatori rispolveravano lo slogan «Yes we can» usato nella campagne 2008 e 2012, a volte trasformandolo in «Yes she can». Un discorso che è andato dritto al punto, attaccando a testa bassa l’avversario, che ormai da nove anni, sin da quando «è sceso da quella scala mobile dorata» non fa che «frignare» sui suoi problemi e oggi ancora di più dato che «teme di perdere con Kamala» e allora continua con «i nomignoli infantili, le teorie del complotto pazze e la sua strana ossessione con la grandezza delle folle» facendo anche un gesto evocativo con le mani e alludendo al termine «weird» evocato dal candidato vicepresidente Tim Walz.

Proprio per lui Obama ha avuto parole di elogio per il suo essere spontaneo e per indossare camicie a scacchi di flanella che non «vengono consigliate da qualche consulente, ma provengono direttamente dal suo armadio».

L’ex presidente poi ha proseguito incitando chi fischiava Trump di fare un passo in più: «Non dite solo buu, votate». Ed è anche questo uno dei punti nodali di questi due interventi, la necessità di allargare il campo dem anche oltre l’elettorato urbano e colto, verso chi vive nelle aree rurali e chi ha valori della «vecchia scuola» essendo anziano e va comunque rispettato anche se non è sempre in linea con una società che si sta muovendo «velocemente». Infine, l’omaggio alla suocera Marian Robinson, citata come esempio di quegli americani sconosciuti che hanno lasciato il paese «migliore di come lo hanno trovato».

I nuovi dem

Che partito è però quello democratico attuale, rispetto a quello che lo aveva incoronato presidente nel 2008? Un comunicato stampa del presidente del comitato centrale repubblicano Michael Whatley lo ha detto esplicitamente: siamo lontani da quel partito e Kamala Harris è «pericolosamente liberal».

In fin dei conti è vero: all’epoca c’era un’ala moderata al Congresso che frenava le spinte in avanti sui diritti Lgbtq+, sull’aborto e persino sulla spesa pubblica per evitare di spaventare quell’elettorato moderato che all’epoca si riteneva cruciale per vincere le elezioni. Obama ci aveva provato, a rompere quel dogma, spostando il partito verso un centro più progressista, ma senza intaccare in modo significativo i dettami dell’economia post-reaganiana: attenzione alla spesa pubblica e sostanziale rispetto dell’economia di mercato, dove interferire il meno possibile.

Oggi i dem sono molto oltre queste posizioni, ma l’ex presidente ha trovato altri modi per rimanere influente. Ad esempio, attraverso i suoi collaboratori: David Axelrod, suo storico consulente di comunicazione politica, è stato uno dei maggiori critici della campagna di Biden e dell’opportunità della sua ricandidatura. E anche prima del ritiro dell’attuale presidente, i due team si stavano guardando con diffidenza ormai da qualche tempo.

Una delle ragioni era anche la gestione della guerra di Gaza, che l’ex stratega dem Ben Rhodes vedeva come eccessivamente sbilanciata su Israele. Ad ogni modo, al netto della nuova inimicizia tra Obama e Biden su cui tanto si è scritto, l’impronta del primo presidente afroamericano sull’attuale partito democratico non è ideologica, bensì operativa. Molti si chiedevano cosa avrebbe fatto dopo aver lasciato la presidenza nel 2017, a soli 56 anni.

Il suo muoversi felpato dietro le quinte nel 2020 e nel 2024 lo certificano quale nuovo “boss” informale dei dem. Il riferimento non è al crimine organizzato, ma a William “Boss” Tweed, politico che guidò l’organizzazione di Tammany Hall, attiva nel raccogliere voti per il partito nella New York del diciannovesimo secolo. Ovviamente Obama non usa i metodi clientelari in voga nella Grande Mela oltre cent’anni fa, ma è chiaro che l’uso della sua moral suasion di ex leader relativamente giovane ha pesato sia nel riunire il partito attorno al suo ex vice nel 2020 così come, qualche settimana fa, si è mosso attivamente per convincerlo a fare un passo indietro.

A confermare questa ipotesi ci sono anche i cambiamenti fatti proprio da Harris da quando è candidata dentro lo staff della campagna elettorale: se il comando rimane formalmente alla fedelissima di Biden Jen O’Malley Dillon, ci sono stati innesti importanti provenienti proprio dalla cerchia obamiana, a cominciare da David Plouffe, già al comando delle operazioni nel 2008 e coinvolto anche nello sforzo per la rielezione nel 2012, che è stato assunto con la carica di consulente senior. Oltre a Plouffe arrivano anche Mitch Stewart, che si occuperà degli stati in bilico e David Binder, che guiderà le ricerche relative al sentire dell’opinione pubblica. Insomma, Obama non è solo popolare, ma è anche influente e i suoi ex collaboratori sono pienamente coinvolti nello sforzo per eleggere Harris.

Diverso e non politico in senso stretto invece il ruolo di Michelle Obama all’interno dei dem attuali: la sua popolarità personale è un asset che deriva anche dal successo di alcune sue opere, in primi il memoir autobiografico Becoming e dalla sua efficacia come oratrice.

Anche nel suo caso però non è una popolarità a 360 gradi: se nel 2016 il suo slogan era «when they go low, we go high», stavolta i dem sono ben felici di rispondere a Trump anche con l’uso di colpi bassi, ritenuti di grande efficacia e lo hanno dimostrato loro stessi parlando alla convention di Chicago senza risparmiarsi contro chi è percepito come un’immensa minaccia alla democrazia americana.

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