Emergono, da due scaffali della memoria, disegni e lettere che messe insieme raccontano compiutamente nell’anniversario tondo cosa fu il colpo di Stato in Cile, 11 settembre 1973, una data fatale anche 28 anni dopo e all’epoca ebbe un impatto non dissimile dalle Torri Gemelle. La generazione che era ancora troppo tenera per piazza Fontana perse l’innocenza davanti alle immagini di Salvador Allende assediato dentro la Moneda, il palazzo presidenziale, armato del mitra che rivolgerà contro se stesso quando capirà che era finita per lui e per il suo esperimento socialista laggiù nel paese alla fine del mondo.

Aveva vinto il generale golpista Augusto Pinochet Ugarte, sostenuto dalla Cia e dalle multinazionali contrarie alle nazionalizzazioni previste dal nuovo corso di una sinistra che aveva prevalso democraticamente alle elezioni. Aveva vinto la faccia truce dell’America di Richard Nixon ed Henry Kissinger che trovava insopportabile un simile governo all’estrema periferia del suo “giardino di casa”.

Due storie

Nel pianeta non ancora interconnesso ma internazionalista come ora non lo è più, il Cile era casa nostra. Sfilavano studenti e operai nelle piazze per chiedere armi al Mir, il movimento politico guerrigliero. Il gruppo degli Inti-Illimani, sorpreso in Italia dal rovescio del suo governo, cantava dai palchi a pugno chiuso «el pueblo unido jamas sera vencido» con intonazione sicura, da punto esclamativo, quando era solo un’illusione.

E Alfredo Chiappori, nella casa di Lecco, affilava la sua matita per comporre venti tavole molto politiche e altrettanto pedagogiche sugli eventi. Mentre si dipanava la cronaca faceva storia indicando i mandanti, la Cia, le gradi banche, la chiesa, i servizi segreti, le multinazionali Anaconda, ITT, Kennecott, Cerro Corporation. Quattordici di quelle strisce compariranno il novembre successivo su Linus con titolo Punto final che sormontava un carro armato la cui bocca sembrava puntare dritta verso il volto del lettore.

A poche centinaia di chilometri di distanza a Verrand, davanti al Monte Bianco, uno studente diciottenne di ingegneria si era messo delle grosse cuffie per ascoltare Beethoven, Mozart, Hayden mentre studiava per un  esame, calcolo differenziale, funzioni, limiti, derivate e integrali. Sua madre fece dei segni per attirare la sua attenzione: stava ascoltando la radio con le prime notizie del golpe.

Il ragazzo era Marco Bechis che a Santiago ci era nato, figlio di una madre cilena di origini svizzere e di un padre italiano che per lavoro si era spostato tra Cile, Brasile e Argentina. Era digiuno di politica ma sentiva il fermento del tempo. E si buttò a capofitto, dall’11 settembre in poi, nella lettura dei giornali: per capire.

Lascerà l’Italia, attratto come un magnete dal sud America dei suoi natali, della sua infanzia e della sua adolescenza. Avrebbe voluto andare in Cile, lo fermò il timore di essere chiamato a svolgere il servizio militare e non era il caso, soprattutto in quei tempi. Si fermò in Argentina dove si mise a studiare per diventare maestro rurale, frequentò gruppi estremisti, fu rapito dagli squadroni della morte, un desaparecidos del Club Atletico nelle viscere di Buenos Aires.

Riemerse in un carcere legale grazie alle conoscenze del padre Riccardo. Tornò in Italia, diventò acclamato regista (Garage Olimpo, Hijos, La terra degli uomini rossi). Ha raccontato la sua storia nel libro La solitudine del sovversivo (Guanda, 2021): ha impiegato una vita per superare la sindrome del sopravvissuto.

Le strisce e le lettere

Alfredo Chiappori è morto l’ottobre scorso. Nel riordinare il suo archivio la figlia Sara ritrova in una cartelletta azzurra le venti strisce, tutte dunque, comprese le sei inedite. Ne parla con Elisabetta Sgarbi e nasce l’idea di produrne un libro. Viene naturale rivolgersi a Marco Bechis per il testo. Ne esce un’opera polifonica e polisemica. Titolo: Cile 1973 – Il golpe contro Allende nelle tavole di Punto Final, a cura della stessa Sara, prefazione di Goffredo Fofi (La nave di Teseo, 96 pagine, 16 euro, in libreria dal 29 agosto).

Caso vuole, se davvero è un caso, che Marco Bechis trovi in fondo a un cassetto nell’appartamento di Milano, il secondo scaffale della memoria, un pacco di lettere indirizzate alla madre Huguette da sua zia Zizi, rimasta in Cile, che coprono un arco temporale compreso tra la fine degli anni Sessanta e gli Ottanta. Tutte scritte a macchina su carta velina fronte-retro per risparmiare sul peso e dunque sul costo di spedizione “par avion”.

La voce della borghesia

C’è il resoconto della famiglia, c’è soprattutto la politica, commentate da una donna della media borghesia, avversa ad Allende e desiderosa di ordine. Bechis usa le missive come canovaccio del suo scritto contrappuntandole con la crescita della sua presa di coscienza e con un’analisi affilata degli atroci fatti geopolitici. Il risultato è, contemporaneamente, un diario intimo e un potente volume di grande valore letterario.

Scrive Zizi il 6 settembre 1970: «Carissima Huguette, non puoi immaginare cosa significhi per noi sapere all’improvviso che il nuovo governo del tuo paese è comunista... Comprendo tu possa dirmi che sto guardando soltanto il nostro particolare e che in generale forse questo governo sarà di beneficio. Ma Willie ed io ci stiamo avvicinando a una certa età e abbiamo il diritto di vivere senza preoccupazioni con la pensione che ci siamo guadagnati».

Bechis chiosa proponendo un dualismo inedito: la puzza e la pulizia. «Noi bianchi se viaggiamo in America Latina sentiamo inevitabilmente la puzza per strada, quella del mendicante o della vecchia india che parla ma non capiamo. Succede anche a Milano. Se un africano ci si avvicina per venderci qualcosa, istintivamente facciamo un passo indietro. In quei momenti pensiamo di essere noi molto puliti, o ne siamo convinti per mantenere sicurezza esteriore. Non è solo la puzza ma il fastidio e il disagio verso l’altro». E ancora: «La povertà puzza e dilaga. La soluzione è sempre stata la stessa, liberarsi dalla sporcizia e ristabilire l’ordine».

Allende aveva a cuore i diritti degli uomini che “puzzano”, esattamente come Gabriel Boric, l’attuale presidente, nel 2022. Sappiamo come è finito il primo, il secondo annaspa tra le difficoltà di cambiare in senso democratico la Costituzione scritta nel 1980 sotto il controllo di Pinochet.

Zizi dopo il sollievo, per lei, del colpo di stato, 25 aprile 1974: «L’inflazione negli ultimi tre mesi è arrivata al 62,2 per cento. Niente a che vedere con il 500 per cento dell’anno scorso. Siamo al limite della sopravvivenza ma felici di vivere con tranquillità, senza sorprese e senza angosce». E il 24 settembre 1974: «Se Marco pensa di venire qui a prendere contatto con gente di sinistra è meglio che non si faccia vedere». Nessun cenno ai desaparecidos, alle sparizioni, alle torture del regime militare. La censura aveva fatto un buon lavoro. Pochi o nessuno all’interno sapeva. E le notizie che filtravano dall’esterno erano sicuramente propaganda rossa.

Chiusi nell’egoismo

Bechis nel 1999 andò a Santiago per il mix audio del suo film Garage Olimpo, sui desaparecidos in Argentina. Pinochet non era presidente da nove anni né capi dell’esercito da uno. A pranzo con Zizi e Willie disse provocatoriamente di voler spedire un VHS della sua pellicola a Pinochet. Sui volti del parenti lesse lo sgomento. Avevano ancora paura: «La dittatura non scompare di colpo con l’arrivo della democrazia, tanto meno se non c’è stata ancora giustizia piena. La paura rimane sulla pelle come patina invisibile e appiccicosa; può durare a lungo, decenni, o anche per il resto della vita».

Oggi siamo disinteressati a quanto succede nel mondo «perché siamo noi stessi il centro del mappamondo. Siamo quel puntino blu sul cellulare che ci dice sempre dove ci troviamo mentre il resto del mondo rimane in penombra». Ci sarebbe poi quella puzza della povertà che è dilagata e ci minaccia da vicino. Chiusi nell’egoismo e privi di anticorpi culturali, drogati di populismo, vorremmo solo cacciarla via. Come si fa con le mosche.


Cile 1973. Il golpe contro Allende nelle tavole di «Punto Final» (La nave di Teseo 2023, pp. 96, euro 16) è un libro di Marco Bechis e Alfredo Chiappori curato da Sara Chiappori

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