Dal 2020 alla fine di agosto ci sono stati dieci tentativi golpisti nel continente. Non si tratta di un effetto domino, ma di un contesto internazionale sempre più permissivo
Dal 2020 alla fine dell’agosto scorso ci sono stati dieci tentativi di colpo di stato in Africa, per lo più nelle zone occidentale e centrale. Di questi ben sette sono riusciti: Mali, Ciad, Guinea, Sudan, Burkina Faso, Niger e Gabon (in ordine temporale). La successione rapida indica una tendenza che, specie dopo la caduta del Muro, sembrava retaggio del passato.
Secondo la ricerca “Combating Coups d’état in Africa, 1950–2014” pubblicata da Springer Link, infatti, le analisi relative agli anni 1950-2014 indicano che l’Africa ha effettivamente assistito a un significativo declino dell'attività golpista, con un impatto ancora più evidente a partire dalla fine della Guerra fredda. Questo anche perché sono venuti a mancare i sostegni di Usa e Urss che appoggiavano colpi di stato per combattere le loro proxy war. Ma la caduta del muro non spiega completamente questa nuova impennata.
Le risposte della comunità internazionale
A quanto afferma al New York Times Naunihal Singh, politologo presso l’U.S. Naval War College, si assiste «a un maggior numero di colpi di stato non a causa di un effetto domino, ma di un contesto internazionale più permissivo». In altre parole le risposte della comunità internazionale starebbero perdendo di efficacia e rendendo i tentativi di golpe in un certo senso meno rischiosi.
Se una volta le sanzioni imposte da organizzazioni continentali come l’Unione Africana o regionali come l’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale) rendevano durissimo per i leader militari restare al potere almeno per un periodo sufficiente a dimostrare capacità di risoluzione dei problemi per cui avevano rovesciato i precedenti governanti, ora, l’efficacia di queste misure sembra affievolita.
Prevalgono, infatti, gli interessi nazionali e governi storicamente interventisti e sanzionatori come Usa e Francia prevedono spesso eccezioni alle norme che impongono l’interruzione degli aiuti esteri dopo i colpi di stato, specie in quei paesi in cui le complicazioni con i leader militari al potere, metterebbero a rischio gli interessi di sicurezza nazionale. «Gli Stati Uniti - aggiunge Singh - si preoccupano più della sicurezza e della competizione con Cina e Russia che della difesa della democrazia».
La ripresa in pompa magna della soluzione militare alle crisi politiche, si deve, quindi, anche all’irrompere degli ultimi anni sulla scena africana di nuovi attori pronti a venire in soccorso di stati sanzionati: se nel periodo post guerra fredda il sostegno occidentale e americano alle giovani democrazie diveniva essenziale quanto unico, ora la presenza sempre più radicata di new player tendenzialmente indifferenti al mancato rispetto di diritti e democrazia se non addirittura favorevoli a modelli autocratici, rende il ricorso alla forzatura militare molto meno rischioso.
In Mali, tanto per citare in esempio, nella lotta al jihadismo e nelle strategie di sicurezza, la Francia e l’occidente sono stati completamente soppiantati da Russia e truppe Wagner, non esattamente campioni di democrazia. Grazie a questi appoggi, le sanzioni imposte su Bamako, non hanno mai condotto a risultati.
La natura dei golpe
Altre riflessioni, poi, vanno fatte attorno alla natura di questi nuovi colpi di stato. Se si eccettua il Sudan, dove dall’aprile scorso è in atto una guerra (ma non completamente riconducibile al putsch dell’ottobre 2021) in tutti gli altri sei stati i golpe sono stati incruenti nella sostanza e, soprattutto, hanno goduto (e continuano a godere) del favore popolare.
Mentre a inizio settembre Ali Bongo chiedeva al mondo di «fare rumore» e ristabilire il suo potere, i suoi concittadini sciamavano nelle strade di Libreville tra canti di appoggio ai golpisti gabonesi. Nel 2021, le strade di Conakry, la capitale della Guinea hanno accolto folle festanti alla notizia della deposizione di Alpha Conde, il presidente che aveva forzato la costituzione per assicurarsi un terzo mandato.
Qualcosa di simile è accaduto negli altri paesi, non necessariamente per simpatia verso l’esercito, ma per opposizione a establishment troppo longevi, a volte corrotti e fedeli alle ex potenze coloniali. È sempre più emergente tra le popolazioni africane, infatti, un sentimento di risentimento verso tutto ciò che riconduce al periodo coloniale, in particolar modo alla Francia, cacciata militarmente e diplomaticamente da vari stati e sempre più invisa: non a caso tutti i colpi di Stato degli ultimi anni, ad eccezione del Sudan, sono avvenuti in ex colonie francesi.
Fa riflettere, infine, un sondaggio del 2022 di Afrobarometer secondo cui solo il 44 per cento degli africani afferma che le elezioni consentono di rimuovere leader indesiderati. La stessa ricerca evidenzia che il gradimento per la democrazia nell’ultimo decennio è sceso dal 73 per cento al 68 per cento.
L’Africa, uscita da una gestione del potere europea violenta, genocidaria, tutt’altro che democratica, solo 60 anni fa (alcuni stati meno), ha tutte le attenuanti per un cammino così difficoltoso verso la democrazia. I suoi figli sono delusi da leadership corrotte, decennali e colluse con le ex potenze coloniali spesso (non sempre) suffragate da processi elettorali farseschi e da poteri tenuti in vita per interessi occidentali. Chiedono autodeterminazione e vera democrazia.
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