La canzone era una sfida alla repressione poliziesca, e come tale è stata accolta dalle autorità, che hanno deciso di renderla illegale.
La canzone Glory to Hong Kong è stata composta da autori anonimi nel corso delle manifestazioni a Hong Kong nel 2019: un vero inno, cantato su un’aria dai richiami ottocenteschi, di quando venivano formate tante nuove nazioni indipendenti, e suonato con trombe, flauti, viole e violini e anche tamburi.
È stata messa su YouTube da un utente chiamato solo Thomas il 31 agosto del 2019. Il testo, oltre che osannare le particolarità di Hong Kong, contiene anche alcune delle frasi che sono state rese illegali dopo il 2020, con l’introduzione della legge sulla Sicurezza nazionale.
La canzone
Fin dall’inizio, la canzone era una sfida alla repressione poliziesca, e come tale è stata accolta dalle autorità, che hanno deciso di renderla illegale. La cosa, però, per un’amministrazione che continua a dire che le libertà di Hong Kong sono “intatte”, ha finora presentato alcune difficoltà. Già a livello empirico, se un suonatore di strada si cimenta con canzoni apolitiche, nessuno lo disturba, malgrado sia illegale suonare uno strumento in pubblico senza permesso.
Chi suonava Glory to Hong Kong per strada se ne rende conto rapidamente, dato che viene circondato dalla polizia non appena questa sente le note della canzone. Fino a poco fa, capitava di sentire Li Jiexin, un suonatore di erhu (una specie di violino a due corde, originario dell’Asia centrale) in vari punti della città, che con un sorriso si cimentava con la melodia di Glory to Hong Kong; poi è stato arrestato, e si è difeso dicendo che la polizia aveva rifiutato di dargli il permesso di suonare in pubblico. Giudicato colpevole, è stato imprigionato per 30 giorni.
Le autorità hanno continuato però a distinguere un suonatore di strada con repertorio pop da quelli che cantano Glory to Hong Kong, e sono ricorse alle corti. Soprattutto dopo che gli eventi sportivi internazionali, sospesi durante la pandemia, sono ricominciati ed è successo l’inaspettato: quando gli atleti di Hong Kong hanno vinto diverse competizioni (la prima volta in Corea, nel corso di un match di rugby), alcuni tecnici inesperti, cercando “inno di Hong Kong” sono incappati nella canzone proibita, e hanno mandato in onda quella.
Hong Kong, in quanto parte della Repubblica popolare cinese, non ha un suo inno, e alle gare sportive viene suonata la Marcia dei Volontari, ovvero l’inno cinese. L’imbarazzo è stato totale, e ha spinto il governo a voler rendere illegale la canzone non solo a Hong Kong, ma nel mondo.
La prima mossa è stata chiedere a Google (proprietario anche di YouTube) di bloccare la canzone su tutte le piattaforme e modificare il motore di ricerca affinché l’input “inno di Hong Kong” non potesse in alcun modo produrre Glory to Hong Kong. Google ha risposto che non poteva farlo, e che necessitava di prove che la canzone fosse illegale.
Si è passati dunque ai tribunali, che a luglio scorso hanno dato torto al governo, dicendo che questo avrebbe prodotto un “effetto raggelante” sulla libertà di espressione a Hong Kong. È seguito un appello, e la scorsa settimana la corte ha accettato la richiesta governativa, rendendo la canzone ora ufficialmente sediziosa e con possibili intenti secessionisti, portando a una proibizione a tappeto sul cantarla, suonarla, trasmetterla, disseminarla di persona o online, e via dicendo.
Il blocco
Google dunque, e YouTube, si sono trovati nuovamente chiamati in causa, e hanno bloccato 32 versioni della canzone disponibili online, un blocco che riguarda la sola Hong Kong, tramite strumenti di geolocazione.
Ora, la canzone appare facendone una ricerca sulla piattaforma, ma il video è oscurato, e c’è una scritta che dice: «Questo contenuto non è disponibile in questo paese per via di un ordine giudiziario».
Alcune versioni restano accessibili, e Spotify per il momento non ha ricevuto l’ordine di bloccare la canzone, ma per tutti coloro che si chiedono quanto resisteranno le libertà di internet a Hong Kong (dove, contrariamente alla Cina continentale, solo pochissimi siti sono stati bloccati ad hoc, ma si continua ad aver accesso alla stampa internazionale, ai siti per i diritti umani, o, per l’appunto, a YouTube, Instagram, Facebook e X, per esempio).
Da Google, in un comunicato al quotidiano online Hong Kong Free Press, hanno detto di essere «delusi dalla decisione della Corte, ma di essere obbligati a rimuovere l’accesso ai video elencati per gli utenti a Hong Kong.
Continueremo a considerare le nostre opzioni per fare appello, al fine di promuovere l’accesso alle informazioni». Mostrando come, malgrado le apparenze, la battaglia per il libero accesso a internet a Hong Kong sia in corso.
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