Com’era facile prevedere, l’ennesima missione del Segretario di Stato americano Antony Blinken in Medio Oriente per raggiungere una tregua nella Striscia di Gaza e la liberazione degli ostaggi si è risolta con un nulla di fatto.

A bloccare le trattative l’intransigenza del premier israeliano Benjamin Netanyahu, che vuole mantenere il controllo della frontiera tra Gaza e l’Egitto e della zona di occupazione che separa Gaza Nord dal resto dell’enclave (il corridoio Netzarim), e l’ostinazione di Hamas, che impone il ritiro completo delle forze armate israeliane e il cessate il fuoco permanente.

Il punto fermo negoziale di Hamas è riavere indietro tutta Gaza, non solo senza la presenza di soldati israeliani, ma anche senza una qualsiasi autorità – a partire dall’Autorità nazionale palestinese – che contesti il suo dominio sulla vita e sulla morte di più di due milioni di persone. In sostanza, il leader dell’organizzazione, Yayah Sinwar, vuole che vengano ripristinate le condizioni antecedenti al 7 ottobre: il dominio militare e politico di Hamas a Gaza, il controllo degli aiuti umanitari e dei fondi stranieri, la tolleranza implicita del governo israeliano.

Di fronte alle continue violenze e al rischio di escalation regionale qualsiasi soluzione che porti alla fine dei combattimenti appare come un sollievo, ma un elemento che in troppi stanno trascurando – dagli attivisti alle organizzazioni umanitarie passando per i governi – è che Hamas non è in grado di amministrare un’impresa titanica come la ricostruzione di Gaza.

Una sfida organizzativa

In base a diverse stime circa un terzo degli edifici è stato distrutto, almeno la metà è severamente danneggiato. Un rapporto delle Nazioni Unite afferma che gli attacchi israeliani hanno lasciato più di 42 milioni di tonnellate di detriti, abbastanza macerie «da riempire una fila di autocarri con cassone ribaltabile che si estende da New York a Singapore».

La sola rimozione delle macerie potrebbe richiedere anni di lavoro e costare fino a 700 milioni di dollari, anche se è difficile calcolarlo poiché si tratta di un compito che sarà complicato dalla presenza tra le rovine di ordigni inesplosi, elementi contaminanti (come l’amianto), e i resti umani.

In base a uno studio di Daniel Egel, economista senior del think tank californiano Rand Corporation, se si tiene conto di costi indiretti come l'impatto a lungo termine delle conseguenze della guerra sulla popolazione (invalidi, malattie, traumi psicologici, decessi) che erodono la forza lavoro, la ricostruzione di Gaza potrebbe costare più di 80 miliardi di dollari.

Ma soprattutto, è un’impresa che richiede l’intervento di migliaia tra volontari, operai specializzati, tecnici e professionisti stranieri, che muoverà un flusso costante di persone, mezzi e materiali da e per l’enclave. Per realizzare tutto ciò è necessaria la massima collaborazione di Israele, poiché dal punto di vista logistico non è possibile affidarsi solo alla frontiera con l’Egitto, lontana dalla zona centrale e settentrionale di Gaza, e dagli snodi infrastrutturali (porti per i container, strade per i mezzi pesanti, alloggi).

Un discorso simile vale per gli interventi necessari ad affrontare la crisi alimentare e l’emergenza sanitaria, che richiede l’ingresso di tonnellate di aiuti, medicinali, vaccini (pochi giorni fa è stato accertato il primo caso di poliomielite), oltre a medici, infermieri e tecnici. Il tempo stringe.

Secondo Oxfam i bombardamenti israeliani hanno distrutto o danneggiato il 70 per cento delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie. Ciò significa che molte strade sono inondate di acqua contaminata da liquami non trattati, creando l’ambiente ideale per la diffusione esponenziale delle malattie.

Il (non) ruolo di Hamas

È difficile immaginare che sia possibile fare tutto questo in una Gaza controllata da Sinwar, il leader di un’organizzazione che non sta sfruttando il suo enorme potere negoziale per imporre a Israele qualcosa che assomigli, anche lontanamente, all’apertura di un processo politico per il riconoscimento dello Stato di Palestina.

Se Hamas dovesse riottenere il controllo di Gaza, si dedicherebbe principalmente a ricostruire la sua struttura di potere sul territorio, reclutando nuovi miliziani e ricostituendo il proprio arsenale, mentre prepara il prossimo grande attentato contro Israele.

Non è neanche detto che Hamas ci riesca, visto che in questi mesi a Gaza sono emersi gruppi armati indipendenti che si contendono il controllo di alcune zone dell’enclave, sequestrando aiuti umanitari e imponendo le propri condizioni alla popolazione. Uno stato di disordine e belligeranza che, se tollerato, condannerà la popolazione di Gaza a vivere tra le macerie di un territorio semidistrutto, contaminato, sotto il dominio di uno o più gruppo armati, avendo come unico sollievo quel che riesce ad arrivare attraverso l’intervento delle organizzazioni umanitarie.

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