Nel suo primo biennio presidenziale, Donald Trump beneficerà quasi certamente di un governo unitario. I repubblicani controlleranno la Presidenza e i due rami del Congresso, oltre a una Corte Suprema con una chiara maggioranza conservatrice. Presumibile, poi, che sia l’amministrazione sia la delegazione repubblicana al Congresso saranno assai più disciplinate, omogenee (trumpiane), efficaci e quindi radicali di quelle del 2017-19. Al servizio di cosa sarà messa questa solida maggioranza e questa nuova disciplina?

Possiamo per convenienza distinguere l’ambito interno da quello internazionale, per quanto si tratti di una distinzione assai artificiale che dimentica le strette interdipendenze tra i due. Sul piano esterno, il ruvido nazionalismo trumpiano sarà immediatamente testato dai due conflitti nei quali gli Usa sono indirettamente coinvolti: l’Ucraina e il Medio Oriente.

Ucraina e Medio Oriente

Immaginabili un disimpegno, anche rapido dal primo, e un maggior coinvolgimento nel secondo. Trump e ancor più il suo vice, Vance, non hanno fatto mistero dell’intenzione di porre termine alla politica di aiuti economici e militari a Kiev. Perché sottraggono risorse preziose da destinarsi all’America e agli americani; perché la rilevanza strategica dell’Ucraina è ritenuta marginale; perché devono essere gli europei a farsene carico; perché la Russia può essere, in prospettiva, un utile partner nella competizione con quello che è considerato il principale rivale di potenza degli Usa ossia la Cina. E perché, infine, una fetta crescente dell’elettorato – repubblicano e non solo – sollecita questo disimpegno.

Diverso è invece il contesto mediorientale. Dove Trump condivide la linea di Netanyahu sull’Iran e non subisce, diversamente da Biden e Harris, le pressioni di un elettorato, quello repubblicano, che non mette in discussione la relazione speciale con Israele né invoca un cambiamento di rotta rispetto a Gaza o alla Cisgiordania.

Un terzo e ultimo dossier di politica estera riguarda il commercio internazionale. Anche su questo le proposte e la retorica di Trump paiono offrire indicazioni inequivoche. Assisteremo quasi certamente a un’escalation della guerra commerciale, magari con immediate misure esecutive dall’alta valenza simbolica che avranno per bersaglio la Cina. Ma è probabile che esse si estenderanno anche ad altri paesi e regioni, in un processo che deliberatamente non distingue tra alleati e nemici.

Europa

E che prenderà quindi di mira la stessa Europa, con l’intento di colpire quelle economie, Germania su tutti, che hanno un largo attivo nel parametro – le bilance commerciali – così centrale nella monodimensionale concezione trumpiana delle relazioni internazionali. Europa che vedrà testata anche la tenuta di un’alleanza Atlantica dalla quale gli Usa non possono di fatto uscire, ma che possono svuotare di senso e di capacità operativa.

Se passiamo al piano interno, possiamo invece attenderci iniziative eclatanti e dall’alta valenza simbolica sin dal primo giorno della nuova amministrazione. E d’altronde otto anni fa, uno dei primi atti dell’amministrazione Trump fu il famoso “muslim ban”, l’ordine esecutivo con cui s’impediva l’ingresso negli Usa di cittadini e rifugiati provenienti da sette paesi a maggioranza musulmana.

Immigrazione

Immaginabili quindi dei primi provvedimenti finalizzati a dare corso al piano, draconiano e irrealistico, di espulsione di immigrati privi di permesso di soggiorno. Così come immaginabili azioni immediate di smantellamento dell’apparato regolamentatorio in materia di emissioni, inquinamento e standard energetici. In parallelo si cercherà di procedere a un drastico mutamento della politica industriale, con il contestuale tentativo di rilanciare un settore estrattivo di nuovo deregolamentato, e di disaccoppiare il sostegno alla re-industrializzazione dagli obiettivi di transizione energetica definiti anche dagli accordi internazionali nei quali gli Usa erano rientrati con Biden. La deregulation non si limiterà certamente al solo ambito dell’energia e dell’ambiente.

Il nuovo Congresso repubblicano, in linea con misure approvate dalla sola Camera nell’ultimo biennio legislativo, cercherà di smantellare l’apparato regolamentatorio adottato nel lungo post-2008 e metterà nel cassetto quelle azioni anti-monopolistiche che tanto spiegano del sostegno di pezzi della Silicon Valley a Trump.

Così come lo spiegano almeno in parte le sue proposte in materia di politica fiscale, su tutte la promessa di ridurre la corporate tax al 15 per cento. Probabile, o addirittura certa, sarà la reazione di Stati e municipalità controllati dai democratici, soprattutto sulle tematiche ambientali. Perché anche se vi fosse un contesto di governo federale unitario è prevedibile una dialettica tesa e conflittuale tra il potere federale e quelli statali.

Una dinamica, questa, che abbiamo visto bene all’opera negli ultimi anni e che esprime un altro dei prodotti della polarizzazione politica, culturale e sociale degli Usa contemporanei e la fatica ormai evidente della loro democrazia.

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