Vivian Silver è un’israeliana di 74 anni residente presso il kibbutz di Beeri, a ridosso della frontiera con Gaza. È ormai quasi certo che ci sia anche lei, una delle attiviste pacifiste più impegnate del paese, fra gli ostaggi sequestrati e nascosti nel cuore della striscia, per farne merce di scambio.

Silver, di origini canadesi, coordinava trasferimenti di pazienti palestinesi di Gaza in ospedali israeliani, co-dirigeva il Centro arabo-ebraico per l’uguaglianza, l’emancipazione e la cooperazione, e negli anni si era resa protagonista di una moltitudine di iniziative per la mediazione e per la pace.

Non solo Beeri

Silver e la sua Beeri non sono un’eccezione. I villaggi agricoli, 20 kibbutzim e un moshav, a ridosso della striscia di Gaza, finiti per ovvi motivi geografici travolti dall’invasione senza precedenti di Hamas lo scorso sabato, sono fra le comunità più progressiste e sensibili al problema palestinese in tutto il paese.

Kfar Aza, Mefalsim, Nahal Oz, Nir Am, Gvulot: sangue versato fra i contadini delle terre di mezzo, fra chi credeva ancora in una coesistenza possibile.

Lo si vede scorrendo i risultati elettorali nelle elezioni degli anni passati: il Labour e Meretz, pressoché scomparsi in altre zone di Israele, qui rimangono ben radicati. Sia per ragioni storiche – si tratta di comunità originariamente votate a principi socialisti – sia perché la scelta coraggiosa di trasferircisi è più comune fra i teorici e sognatori di un buon vicinato.

Nir Am

A Nir Am per esempio abita Amir Tibon, corrispondente del giornale Haaretz, pubblicazione nota per le posizioni di vicinanza ai palestinesi. Appena 800 metri di campo aperto dividono la sua casa dalla striscia di Gaza. Ci si è trasferito all’indomani della guerra di Gaza del 2014 e delle elezioni del 2015: una delle tante vittorie del premier Benjamin Netanyahu che però nel kibbutz ricevette appena il 5 per cento dei voti. L’85 per cento dei residenti votò a sinistra.

A Nir Am si è consumato uno dei massacri più efferati della mattanza dello scorso weekend. Tibon si è salvato solo grazie all’intervento del padre, militare pluridecorato famoso in tutto il paese. Era rinchiuso con la famiglia in un bunker mentre i miliziani prendevano il villaggio. Il “nonno” è arrivato ad estrarli vivi con un amico e un soldato raccattato sulla strada, mentre l’esercito regolare era ancora in panne.

Spiegando la scelta di trasferirsi alle porte di Gaza in un articolo di qualche anno fa, Tibon descriveva la bellezza del luogo contrapposta alla miseria del quartiere palestinese visibile a poca distanza, quello di Shejaiya. E spiegava: «C’era qualcosa che si sentiva chiaramente nella maggior parte di Israele in quei giorni, ma che non si sentiva per nulla a Nahal Oz: l’odio».

Mefalsim

A Mefalsim, kibbutz fondato nel 1949 vicino a Beit Hanoun nella striscia di Gaza, è sopravvissuto alla mattanza anche Nir, contadino israeliano di origini argentine. A chi lo andava a trovare in visita, almeno prima dei fatti del 7 ottobre, amava raccontare come da bambino facesse la spesa tutti i giorni al mercato di Gaza city, e andasse al mare coi genitori sulle spiagge della striscia.

Condannava le discriminazioni contro i palestinesi nate con le violenze della prima e della seconda intifada, come le restrizioni alla libertà di movimento e le strade separate (all’epoca a Gaza c’erano ancora gli insediamenti israeliani).

La sua generazione, anche dalla parte palestinese, ha vissuto un periodo di apertura e libertà di movimento in cui i lavoratori arabi venivano nello stato ebraico e conoscevano gli israeliani.

I giovani adulti di oggi nella striscia, invece, non hanno mai messo il naso fuori da quella lingua di terra, non sanno le lingue, e non hanno mai visto un israeliano. È probabile che gli stessi miliziani autori dell’invasione vedessero, in quel fatidico giorno, il mondo al di fuori della striscia per la prima volta in assoluto.

Netiv HaAsara

Sarebbero almeno 15 le vittime del moshav Netiv HaAsara, la comunità più vicina in assoluto al valico di Erez, in tempi recenti l’unico punto di passaggio per civili fra Israele e la striscia di Gaza. Anche questo villaggio agricolo, protetto da due strati di mura rivolte a meridione, ha una forte identità progressista.

Le eccezioni alla regola lungo il confine sono Alumim e Sa’ad, due kibbutz religiosi, oltre che la “seconda linea” di Ayarot pitu’ah, le cosiddette “città dello sviluppo” per nuovi immigrati degli anni 50, come Sderot che è stata a sua volta duramente colpita dai massacri.

Da Netiv HaAsara Hila, una coraggiosa donna di mezza età appassionata di motocicletta, mi scrive in un messaggio su whatsapp “Nulla va bene, ma siamo vivi”. In occasione di un’intervista alla vigilia di un appuntamento elettorale, qualche anno fa, spiegava con queste parole le tendenze progressiste delle comunità limitrofe alla striscia: «Basta Netanyahu. Chi vive la guerra sulla propria pelle ogni giorno vuole la pace».

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