Il venerdì è un giorno sacro per 1.9 miliardi di musulmani sulla terra. È il giorno della preghiera, del riposo dal lavoro, ma anche quello dove la rabbia si trasforma in protesta. La calma è garantita per circa un’ora, il tempo che l’imam pronunci il suo sermone e offici la preghiera del Mezzogiorno, dopodiché la tensione esplode nell’aria e per le strade.

Non è un caso se durante le rivoluzioni del 2011, il fatto storico che ha dato vita a un nuovo equilibrio politico nel nord Africa e nel Medioriente, il venerdì era il giorno più temuto dai servizi di sicurezza interni.

Termometro politico

Per questo motivo la giornata di oggi è un termometro che servirà a misurare il consenso raccolto da Hamas a sei giorni dall’attacco del 7 ottobre. Khaled Meshaal, l’ex capo di Hamas che oggi dirige l’ufficio della diaspora, ha aizzato dal Qatar la comunità islamica nel mondo affinché organizzasse manifestazioni in sostegno della causa.

«Venerdì dobbiamo andare nelle piazze e nelle strade del mondo arabo e islamico», ha detto inviando un messaggio alla Reuters. Giordania, Libano, Siria ed Egitto sono i paesi più “attenzionati”, soprattutto dopo che i bombardamenti israeliani in Libano e Siria rischiano di allargare il conflitto ad altri attori nella regione.

Lo stesso capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, lanciando l’operazione al-Aqsa storm aveva detto che è una «battaglia dell’intera comunità arabo-musulmana». E ha invitato «tutti i figli di questa comunità, ovunque si trovino nel mondo, ad unirsi a questa battaglia, ciascuno a modo suo, senza indugi e senza voltarsi le spalle».

Il risveglio

Già in questa prima settimana si è visto il “risveglio” della popolazione araba-musulmana che da giorni è attaccata allo smartphone e alla televisione per seguire gli ultimi aggiornamenti da Gaza. Gran parte dell’occidente era convinto che il conflitto israelo-palestinese fosse dimenticato dalla popolazione araba.

Le distensioni diplomatiche tra Tel Aviv, Riad, il Cairo, Abu Dhabi e Amman hanno fatto credere al mondo intero che la causa palestinese non fosse più importante come una decade fa. Ma se i leader politici hanno messo in secondo pia no le politiche repressive del governo israeliano, non lo ha fatto, invece, la comunità da loro rappresentata.

Sui social network il 7 ottobre 2023 è già una data spartiacque, pe alcuni è il giorno che impartirà un nuovo corso alla storia. Resta da capire da che parte si sposterà l’ago della bilancia. In settimana si sono tenute manifestazioni in diverse città del mondo in sostegno della causa palestinese.

L’ultima è quella di ieri a Tunisi, dove il sindacato più importante del paese ha organizzato una manifestazione che ha attirato migliaia di persone in avenue Bourguiba, nel centro della città. Nei giorni precedenti ci sono stati sit-in anche a Rabat in Marocco e in paesi come Pakistan e Bangladesh. Altri si sono tenuti in Europa e negli Stati Uniti.

Durante l’incontro al Cairo tra i ministri degli Esteri della Lega Araba è emerso chiaramente quanto la questione sia delicata per i governi della regione. I leader politici sono consapevoli che la guerra tra Hamas e Israele sposta il consenso popolare (da non sottovalutare che in Egitto si voterà a dicembre).

In allerta

La tensione ha messo in allerta anche i servizi di intelligence occidentali, soprattutto dopo le tensioni dei mesi scorsi nelle città svedesi, danesi e turche dopo i roghi del corano in piazza.

Hamas ha alzato l’asticella. Ha allargato lo scontro al mondo intero, ha chiamato in causa i paesi più importanti nella regione cogliendoli impreparati.

Da una Gaza sotto assedio e con il rischio di una catastrofe umanitaria i miliziani sperano di ricevere una forte risposta alla chiamata. Perché il venerdì, per i musulmani, non è un giorno qualunque.

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