- A partire dal “Pivot to Asia” varato nel 2011 da Barack Obama, le amministrazioni statunitensi hanno reagito con un crescendo di diffidenza e ostilità all’ascesa della Repubblica popolare cinese.
- Perché tanti paesi asiatici non si schierano, nemmeno sull’Ucraina? Per l’ex ministro degli Esteri di Singapore l’equidistanza tra Cina e Usa va difesa. Le pressioni verso una parte generano nei partner l’effetto opposto.
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A partire dal “Pivot to Asia” varato nel 2011 da Barack Obama, le amministrazioni statunitensi hanno reagito con un crescendo di diffidenza e ostilità all’ascesa della Repubblica popolare cinese, «la sfida geopolitica più importante per l’America» secondo la strategia di sicurezza nazionale sottoscritta da Joe Biden. E la contrapposizione tra democrazia e autoritarismo che accompagna la competizione economico-tecnologica con Pechino a Washington ha indotto studiosi e policymakers a preconizzare una “nuova Guerra fredda”.
Al contrario, osservato dall’Asia, dall’epicentro dell’influenza della Cina, il mondo sta diventando “multipolare”, una trasformazione caldeggiata dalle élite del continente dove vive più della metà (4,5 miliardi) della popolazione del pianeta e che genera la maggior parte della crescita: il 45,95 per cento del Pil globale, contro il 20,73 per cento dell’Europa e il 18,5 per cento del Nord America, secondo i dati del Fondo monetario internazionale relativi al 2021 (a parità di potere d’acquisto).
La stessa guerra in Ucraina - sostiene George Yeo - è una cartina al tornasole della gestazione di un sistema non-occidentale che «mette l’Occidente, che ha dominato il mondo così a lungo, profondamente a disagio». L’ex ministro degli esteri di Singapore ritiene che l’invasione del paese confinante abbia reso evidente che la Russia, «la cui origine e storia hanno nel loro DNA una forte componente asiatica», non fa parte dell’Occidente. Il conflitto in Europa ha inoltre «mostrato agli Stati Uniti che anche l’India è il polo di se stessa e il satellite di nessuno», mentre «la contestazione del dominio occidentale da parte di Cina, Russia e India fa sperare anche al Medio Oriente, all’Africa e all’America Latina di trovare la propria strada per il futuro, nonostante le passate colonizzazioni».
Yeo ha espresso queste considerazioni nel discorso di apertura pronunciato martedì 10 gennaio al Regional Outlook Forum 2023 dello ISEAS-Yusof Ishak Institute di Singapore. La città-stato, con la sua dinamica economia di mercato, la costante ricerca di un piccolo spazio politico ed economico tra le grandi potenze, il suo ruolo propulsivo nell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean), è un osservatorio privilegiato sui rapporti tra Cina e Occidente. Dalle divinazioni del padre della patria, l’ex premier Lee Kuan Yew (scomparso nel 2015), hanno attinto idee generazioni di leader cinesi, statunitensi e delle maggiori multinazionali.
Fuga dal dollaro?
Per il sessantottenne cattolico che, dopo 23 anni al governo, collabora con grandi società di consulenza, per l’avvento del mondo multipolare ci vorranno anni, che potrebbero essere scanditi da conflitti ibridi e proxy wars come quella in Ucraina, «una guerra per procura tra l’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, e la Russia», rispetto alla quale «al di là di pie dichiarazioni fatte alle Nazioni Unite, la maggior parte dei paesi non occidentali non sta prendendo posizione». A corroborare questa tesi, tre risoluzioni dell’Assemblea generale (di condanna dell’invasione russa, per la sospensione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani, e sulle riparazioni di guerra) sulle quali decine di stati - mediamente circa un terzo dei 193 membri dell’Onu - si sono astenuti o hanno votato contro.
Mentre quella della Cina è anche una “neutralità filo-russa” (Pechino ha con Mosca una “partnership strategica onnicomprensiva”), Yeo sottolinea che altri paesi sono stati spesso costretti ad «adeguarsi alla long-arm jurisdiction degli Stati Uniti, dalla quale però vengono danneggiati». E così «l’utilizzo da pare degli Usa del sistema finanziario come un’arma sta facendo emergere un sistema alternativo che, a un certo punto, minaccerà il primato del dollaro Usa».
Finora non una priorità per Pechino, la de-dollarizzazione è stata avviata da Mosca negli anni che hanno preceduto l’aggressione all’Ucraina, permettendole di limitare l’impatto delle sanzioni. Una strada che potrebbe essere percorsa anche da Pechino, se le sue relazioni con Washington continueranno a deteriorarsi. I segnali in questa direzione non mancano: tra gli altri, l’aumento delle transazioni in yuan con i paesi aderenti alla nuova via della Seta, la riduzione delle riserve cinesi di biglietti verdi e di buoni del tesoro Usa, l’istituzione del Cross-Border Interbank Payment System (Cips).
Scienziati nel mirino
La guerra in Ucraina, finora, ha «rafforzato la leadership degli Stati Uniti sull’alleanza occidentale», ma Yeo è convinto che «gli interessi dell’Europa siano differenti da quelli degli Stati Uniti, anche se la sua affinità culturale con gli Usa è duratura». La calorosa accoglienza riservata da Xi Jinping ad Olaf Scholz, in visita a Pechino il 4 novembre scorso assieme una folta delegazione di manager delle maggiori multinazionali teutoniche, e la pubblicazione su Foreign Affairs di The Global Zeitenwende - How to Avoid a New Cold War in a Multipolar Era, articolo nel quale il cancelliere tedesco sostiene che «in un mondo multipolare, il dialogo e la cooperazione devono estendersi oltre la comfort zone dei paesi democratici», sembrano dargli ragione. Per le economie, come quella tedesca, dipendenti dall’export (47 per cento del Pil nel 2021), il mercato cinese costituisce un’attrattiva irresistibile. Lo stesso vale per i vicini asiatici della Rpc, che in più hanno bisogno dei suoi investimenti infrastrutturali.
Negli Stati Uniti invece il governo è intervenuto (con i dazi, attraverso il divieto di esportare in Cina “componenti chiave”, favorendo la delocalizzazione dell’industria taiwanese dei semiconduttori, mediante il “CHIPS and Science Act”) per recidere decennali legami scientifico-tecnologici con la Rpc. Secondo Yeo, che ha guidato anche il dicastero dell’industria e del commercio, l’obiettivo è «negare alla Cina la tecnologia avanzata che ha un utilizzo strategico», quella cioè per favorire lo sviluppo della manifattura e della difesa. Un embargo che non ha risparmiato gli scienziati e ingegneri di etnia cinese che lavorano nel settore high-tech. Come Gang Chen, ricercatore del Massachusetts Institute of Technology (Mit) impegnato in studi sulla trasmissione del calore, incatenato e arrestato all’alba del 14 gennaio 2021, perché nelle richieste di finanziamento al governo Usa non avrebbe rivelato le sue affiliazioni a istituzioni cinesi, accusa caduta nel nulla un anno dopo.
Attendere il consenso
Le università di Princeton, Harvard e il Mit stimano che nel 2021 abbiano abbandonato il loro posto, in favore di uno nella Rpc, oltre 1.400 scienziati cinesi che si erano formati negli Usa (il 22 per cento in più rispetto all’anno precedente). Il Wall Street Journal ha ricordato che «le partenze dagli Stati Uniti sono aumentate notevolmente a partire dal 2020, quando la pandemia di Covid-19 ha coinciso con un aumento dei procedimenti penali contro accademici nell’ambito della China Initiative», lanciata da Trump e circoscritta e rinominata da Biden “Strategia per contrastare le minacce di stati-nazione”.
Mentre le rotture delle catene di approvvigionamento provocate dall’uno-due guerra commerciale-pandemia hanno indotto le multinazionali occidentali a cercare di ridurre la dipendenza dalla “fabbrica del mondo”, l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico - dieci paesi politicamente, economicamente e culturalmente molto diversi tra loro - è diventata il primo partner commerciale della Cina, soppiantando l’Unione europea. Uno dei punti di forza dell’Asean viene ricordato così da Yeo: «A differenza dell’Ue, non siamo inequivocabili nel nostro processo decisionale. Se si tratta di salvare la faccia e di preservare relazioni a lungo termine, evitiamo di votare. Quando non possiamo essere d’accordo, zigzaghiamo, finché le condizioni non diventano più propizie».
Anche l’Asean - come gli altri paesi asiatici (eccetto il Giappone, schierato con gli Usa) - «teme che un’eccessiva dipendenza dalla Cina limiterebbe la nostra autonomia d’azione» ma, allo stesso tempo, «nessun paese membro rifiuterà le opportunità che si presentano in Cina».
Quella dell’Asean è una “neutralità dinamica” tra Cina e Stati Uniti, ovvero, per dirla con Yeo: «Qualsiasi potenza che esercitasse su di noi pressioni eccessive ci indurrebbe a spostarci nella direzione opposta».
L’idea di doversi schierare tra democrazia e autoritarismo non sembra fare breccia tra le élite asiatiche. «Nessuno vuole la Cina come nemico – conclude Yeo -, tutti vogliono che Stati Uniti, Giappone ed Europa siano amici. Purché non ci venga chiesto di scegliere».
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