- Questa guerra devastante nel cuore dell’Europa ha costretto molti a ricordare che ancora oggi sono proprio i conflitti la principale causa della fame nel mondo.
- È dal 2014 che la fame cresce dopo che, negli anni a cavallo del passaggio di secolo, le statistiche segnalavano la speranza di una inversione di rotta, capace di portare milioni di persone finalmente fuori dalla fame cronica.
- Russia e Ucraina rappresentano il 30 per cento del mercato mondiale di grano, il 55 per cento di quello di olio di semi di girasole, il 20 per cento nel mais, il 32 per cento nell’orzo.
Questa guerra devastante nel cuore dell’Europa ha costretto molti a ricordare che ancora oggi sono proprio i conflitti la principale causa della fame nel mondo. Forse per troppo tempo ci si è illusi, almeno alle nostre latitudini, che tutto sommato questo secolo non fosse più il tempo della fame per guerra.
Ma la realtà ci mette davanti agli occhi tutt’altro. E non da oggi. Perché sono decine i conflitti mai sopiti dove carestie, povertà e malnutrizione coinvolgono milioni di persone, colpendo in particolare donne e bambini. La mappa della fame si sovrappone alla geografia dei conflitti e oggi più che mai anche a quella dei cambiamenti climatici. E la matrice che ne esce espone sempre, e prima di tutto, proprio i paesi in via di sviluppo a condizioni sempre più difficili.
Speranze disattese
È dal 2014 che la fame cresce dopo che, negli anni a cavallo del passaggio di secolo, le statistiche segnalavano la speranza di una inversione di rotta, capace di portare milioni di persone finalmente fuori dalla fame cronica. Le speranze sono state disattese. Perché è da quasi una decade che la prospettiva è un’altra e la pandemia ha strappato ulteriormente una situazione già di per sé complicata.
Ora questo conflitto rischia di essere il punto di svolta più drammatico, anche sul fronte della sicurezza alimentare globale e proprio per le caratteristiche agricole di Russia e Ucraina. Per quello che producono, per come lo producono, per dove storicamente arrivano queste produzioni. E per l’effetto sullo scenario e sugli assetti globali che già stiamo vivendo da quel 24 febbraio.
Russia e Ucraina rappresentano il 30 per cento del mercato mondiale di grano, il 55 per cento di quello di olio di semi di girasole, il 20 per cento nel mais, il 32 per cento nell’orzo. E sono ben cinquanta i paesi in via di sviluppo che ricevevano prima del conflitto almeno un terzo del loro grano da Russia e Ucraina: realtà delicate dall’Egitto al Libano, dalla Somalia al Senegal, dalla Tanzania al Congo o al Pakistan.
A questo, si aggiunga che Russia e Bielorussia rappresentano il 20 per cento del mercato mondiale dei fertilizzanti, essenziali per garantire il successo dei raccolti soprattutto nelle aree più delicate. È una tempesta perfetta quella che abbiamo davanti. Il Segretario generale dell’Onu, lanciando l’allarme, ha parlato di 1 miliardo e 700 milioni di persone, un terzo dei quali già in povertà, esposte a insicurezza alimentare, energetica e finanziaria e dunque a rischio fame e povertà.
Le stime Fao indicano che l’aumento dei prezzi alimentari entro la fine di quest’anno potrà arrivare anche al 20 per cento e se consideriamo che già gli aumenti sono stati in media del 30 per cento rispetto all’anno scorso, il dato certifica una condizione mai raggiunta nella storia recente delle rilevazioni dei prezzi alimentari.
Soluzioni globali
Si può capire più nettamente da questo quadro quello che già era chiaro a molti prima del conflitto, ossia la centralità delle questioni agricole e alimentari anche in chiave geopolitica, accanto alle questioni energetiche. Perché ci sono certamente petrolio e gas ma ci sono anche, oggi più che mai, grano, mais, soia e altre produzioni primarie. E l’unico modo che abbiamo per affrontare questa situazione è agire globalmente. Perché un’emergenza sistemica di questa portata richiede soluzioni globali.
Ci sono misure da attuare. Prima di tutto nelle terre martoriate dell’Ucraina per sostenere le comunità agricole sconvolte da queste settimane. In alcune aree si sta cercando di seminare per non perdere tutto il raccolto futuro, in altre è pressoché impossibile farlo dalla fine di febbraio. La Fao stima che almeno un terzo delle superfici agricole e dei raccolti andranno persi quest’anno. Essere operativi a sostegno di queste realtà, per noi, significa garantire loro una serie di aiuti molto concreti, dai semi certificati per provare a seminare, a piccoli contributi economici di protezione sociale per evitare che nella miseria queste famiglie vendano per disperazione anche quel poco di mezzi agricoli che hanno.
Se si allarga lo sguardo ai paesi fragili dove si riverbera questa situazione, il primo tema rimane quello di evitare rotture drammatiche degli approvvigionamenti alimentari di base con il conseguente rischio per milioni di persone di rimanere senza cibo. Per questa ragione insistiamo perché i flussi dei beni agricoli primari rimangano aperti, evitando blocchi alle esportazioni e politiche protezionistiche a livello nazionale da parte dei paesi maggiormente produttori.
Le crisi alimentari che abbiamo affrontato nel recente passato dovrebbero averci insegnato che nessuna politica protezionistica di corto respiro produce un effetto positivo ma, al contrario, peggiora le cose perché aumenta l’instabilità. Eccedenze e riserve dovrebbero andare a chi ha più bisogno, senza accaparramenti egoistici che invece possono aumentare la volatilità dei prezzi e dei mercati alimentari colpendo come sempre i più deboli.
La diversificazione delle fonti di approvvigionamento si rende sempre più necessaria, non solo quando parliamo di energia ma anche quando pensiamo ai beni agricoli primari. L’aumento delle capacità produttive dei paesi per essere maggiormente bilanciati, almeno per le filiere agricole prioritarie, va incoraggiato ma senza ripiegamenti autarchici irrealizzabili e controproducenti.
Accanto a questo, è indubbio che i paesi più vulnerabili avranno bisogno anche di strumenti di assistenza finanziaria dedicati per accompagnare questa situazione. Va dato atto al governo italiano in queste settimane di aver compiuto alcuni passi utili soprattutto per evidenziare negli organismi internazionali e in contesti come il G7 e il G20 l’urgenza di una iniziativa diplomatica rafforzata anche sul fronte della sicurezza alimentare.
Per il nostro paese in particolare l’asse su cui sviluppare questo lavoro ovviamente è quello mediterraneo, guardando al Nord Africa, curando proprio la situazione di realtà limitrofe alle nostre dal Libano alla Libia passando per l’Egitto e scendono fino all’Etiopia o al Congo.
Il peggioramento delle condizioni di sicurezza alimentare in tante aree del mondo è un rischio che va scongiurato con determinazione e richiede una consapevolezza nuova da parte della comunità internazionale. I rischi per la tenuta dei già fragili equilibri di tante di queste realtà e le potenziali conseguenze nefaste che si avvertono, dovrebbero essere al centro di impegni immediati. Perché questa guerra non può e non deve portare anche a una escalation della fame nel mondo.
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