- Anche sull’ultimo lembo orientale dell’impero di Putin, vicino all’isola di Sakhalin, di fronte all’oceano Pacifico, arrivano i contraccolpi delle bombe russe, dei morti e delle macerie in Ucraina.
- Mosca, ormai impegnata dopo il 24 febbraio a sfoderare un linguaggio bellicoso verso obiettivi vicini e lontani, ribatte che quel territorio è inalienabile, che il Giappone è responsabile di «azioni ostili», che ormai le relazioni tra i due paesi sono addirittura peggiori rispetto ai tempi della Guerra fredda.
- Ma le Curili non sono una provocazione casuale, secondaria. Formano una catena di oltre sessanta isole, isolotti e semplici scogli, tutti allineati come a creare una barriera, con una ventina di vulcani ancora attivi.Tokyo ne rivendica quattro, le più meridionali, le più vicine.
Anche sull’ultimo lembo orientale dell’impero di Putin, vicino all’isola di Sakhalin, di fronte all’oceano Pacifico, arrivano i contraccolpi delle bombe russe, dei morti e delle macerie in Ucraina. Nelle scorse settimane il Giappone ha rivendicato la sua sovranità sulle isole Curili e ha ricordato che i russi «le occupano illegalmente».
Mosca, ormai impegnata dopo il 24 febbraio a sfoderare un linguaggio bellicoso verso obiettivi vicini e lontani, ribatte che quel territorio è inalienabile, che il Giappone è responsabile di «azioni ostili», che ormai le relazioni tra i due paesi sono addirittura peggiori rispetto ai tempi della Guerra fredda. E siccome dopo la fine della Seconda guerra mondiale Mosca a Tokyo non hanno mai firmato un trattato di pace, i russi adesso annunciano la ritirata da quel negoziato inconcludente.
Nel frattempo la alleanza di Mitsubishi con Gazprom continua il suo corso al pontile di Sakhalin-2. Anche su quel fronte il gas è il nuovo stratega senza divisa e senza volto di Mosca, come il generale inverno fece con Napoleone e poi con Hitler e Mussolini.
Ma le Curili non sono una provocazione casuale, secondaria. Formano una catena di oltre sessanta isole, isolotti e semplici scogli, tutti allineati come a creare una barriera, con una ventina di vulcani ancora attivi. Tokyo ne rivendica quattro, le più meridionali, le più vicine. Nel 1944 l’esercito imperiale si era ritirato su una nuova e ultima linea difensiva, partendo dalle Filippine, appoggiandosi a Taiwan, risalendo al continente per poi fermarsi proprio alle Curili.
Ancora oggi “i territori del nord” sono un caposaldo del patriottismo oltranzista nipponico. Coltivato con devozione nel tempio Yasukuni a Tokyo, dedicato ai compatrioti morti combattendo al servizio dell’imperatore. Tra loro anche quattordici criminali di guerra. Tutto storicamente e malamente assorbito invocando la fedeltà a Hirohito.
Prima di arrivare al capolinea delle Curili, a metà strada lungo l’ultima linea di difesa, c’è l’isola di Iwo Jima. Un nome che diventerà famoso nella guerra del Pacifico, immortalato in quella foto con i marines quasi avvinghiati alla bandiera a stelle e strisce. Il generale Kuribayashi era stato incaricato di organizzare la resistenza in quella landa desolata e strategica. Di fatto una missione suicida per ventimila uomini, che verranno attaccati da sessantamila americani, con altri centomila di rinforzo alle spalle.
L’isola è piatta, senza vegetazione, non ha risorse idriche, non può essere raggiunta da rinforzi, i due aeroporti sono stati bombardati, non c’è più popolazione civile. Bisogna solo resistere, come topi nelle caverne, e ritardare l’avanzata del nemico. Ma finiscono le munizioni, finiscono anche le frecce e l’acqua piovana come nelle battaglie e negli assedi medioevali.
Il generale nel suo ultimo telegramma sa già che quel testo avrà pubblicità sui giornali, tuttavia si consente tre parole che nella atmosfera di quei mesi suonano insieme umane e ribelli, se non sacrileghe: «Tristi siamo caduti». La censura trasforma arbitrariamente tristi in mortificati, perché non ci sia neanche la minima ombra di debolezza, di irriverenza verso le direttive imperiali mentre i segni della disfatta si consolidano. Ci vorrà oltre mezzo secolo perché una giornalista giapponese scriva un bestseller attorno a questo militare che nella battaglia finale modifica il rituale del harakiri e si mette invece alla testa dei suoi uomini morendo con loro.
Discendenza divina
Quando oggi la propaganda di Putin richiama la Guerra fredda e la denazificazione può facilmente inserire anche le frequentazioni hitleriane del Giappone, non solo le rivendicazioni delle isole. I decreti imperiali a quel tempo iniziavano con la formula minacciosa e tonante “Io, Dio”. Con quelle premesse chi rispettava fedelmente gli ordini non era poi colpevole di nulla, per questo si dice che il Giappone è il paese degli eterni innocenti. E qualcosa di simile sembra ispirare il linguaggio del potere russo oggi, senza ancora ricorrere alla discendenza divina ma con la benedizione della chiesa ortodossa.
Putin davanti alle telecamere ha detto che dal girone dantesco della acciaieria Azovstal non deve uscire neanche una mosca. E molto prima di lui Ceausescu, attratto da certi rituali monarchici, disturbato nel sonno durante un viaggio in Laos aveva preteso: fate smettere le cicale. Una invocazione di superpoteri.
Li aveva cercati anche il comandante di un reparto giapponese traversando un fiume in Birmania. Un fucile con impresso il crisantemo, simbolo imperiale, era caduto in acqua, per un paio di giorni tutti i soldati si erano fermati, incuranti delle imboscate, a cercare invano l’arma. Come in un fotogramma de Il ponte sul fiume Kwai. Per il comandante infuriato quella perdita era una vergogna, una mancanza verso lo stesso Hirohito. Così mi raccontò il caporale Hanaoka. Ma ancora più rappresentativa di quei tempi esaltati e cupi era stata l’esperienza del dottor Kasahara nella unità 731 in Manciuria, creata con tre decreti imperiali.
Quello era un reparto di esperimenti medici su prigionieri di guerra russi, cinesi, mongoli, ispirato dal lavoro di Mengele in Germania. Ufficialmente era il Reparto per le forniture di filtri contro le epidemie. Rientrato in patria, il dottore non aveva parlato con nessuno di quella missione criminale, nemmeno con sua moglie.
All’inizio degli anni Novanta lo incontrai nella sua casa a Tokyo. Ormai anziano ma perfettamente lucido convocò figli e nipoti e come in un rito di espiazione raccontò il suo lavoro in Manciuria. «Prima facevo ricerche sui cadaveri. Poi contagiavo scimmie e topi. Prelevavo il sangue dalle cavie e lo iniettavo ai prigionieri. Quando cominciava la febbre contagiavo un altro prigioniero fino alla conclusione». Per farsi portare una cavia chiedeva pudicamente un maruta – pezzo di legno per indicare un prigioniero.
Altri sottoponevano i corpi a temperature sempre più gelide, o li inserivano in centrifughe sempre più veloci per misurare i limiti di resistenza, oppure iniettavano urina di cavallo. L’apparato di propaganda russo per invadere l’Ucraina ha inventato la formula “operazione militare speciale” ma è in ritardo. L’esercito imperiale di Hirohito nel 1937 per alcune settimane a Nanchino sterminò trecentomila civili, molti uccisi all’arma bianca. Così scrive la lapide deposta in città, così hanno confermato i ricercatori stranieri. Pochi anni dopo, alla resa di Tokyo, quel massacro benché ormai pubblico anche nel Sol levante è stato descritto gelidamente come la “operazione di Nanchino”, e così imparano ancora oggi i ragazzi giapponesi nei libri di scuola. Anche le donne di conforto coreane, reclutate spesso con l’inganno, per soddisfare i soldati nipponici, ancora attendono nette parole di scusa.
L’umiliazione di Togo
La guerra si vendica quando le cambiano nome, e prima o poi arriva una confessione, una testimonianza tardiva. Come è successo con il principe Mikasa, fratello cadetto dell’imperatore, ufficiale a Nanchino al tempo del massacro. Già allora non condivideva le ambizioni del suo paese. E al momento della resa aveva chiaramente condannato l’aggressione alla Cina. Anni dopo raccontò: «Ero stato profondamente turbato quando un ufficiale mi aveva detto che il modo migliore per addestrare i giovani soldati al combattimento con la baionetta consisteva nell’usare i prigionieri come bersagli». Definirà in seguito, dieci anni dopo la morte di suo fratello Hirohito, il sistema imperiale come una prigione senza sbarre e chiederà scusa al presidente cinese Jiang Zemin in visita ufficiale, proprio dentro il palazzo imperiale, per le angherie commesse a Nanchino, «viste con i miei occhi».
Nei richiami alla Guerra fredda Mosca può includere anche le recenti manovre navali di Giappone e America. Qualche anno fa le ambasciate di Tokyo all’ingresso esponevano un manifesto con le sagome di tutta la loro flotta militare. Una introduzione nostalgica a quando le portaerei imperiali erano arrivate con i loro aerei fino a Pearl Harbor. E prima ancora, all’inizio del secolo scorso, quando la flotta russa partita dal Baltico per Vladivostok, all’altro estremo dell’impero zarista, era stata sconfitta e umiliata dopo un viaggio di ventimila miglia dalla flotta dell’ammiraglio Togo nello stretto di Tsushima.
Nasceva il Giappone moderno e si avvicinava la rivoluzione d’ottobre. Ciascuno dei due paesi riscrive la storia a modo suo, tra enfasi e omissioni. Il trattato di pace per ora è rinviato.
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