Se la guerra in Ucraina aveva prodotto in occidente una geografia politica grossomodo chiara  (di qua i favorevoli alla fornitura di armi a Kiev, di là i contrari), ora quella mappa sta cambiando. 

A rompere la simmetria è la questione cinese: considerare Pechino parte del problema o parte della soluzione? E Xi Jinping: alleato sempre meno occulto di Vladimir Putin oppure potenziale partner dell’occidente, quantomeno dell’Europa se gli americani decidessero diversamente?

In fondo a queste domande potremmo scoprire che c’è una “terza via”, un metodo europeista e liberale, di progettare il nuovo ordine mondiale.

Un Pétain a Kiev

AP

Nella cartografia tradizionale il percorso verso la pace immaginato da chi non vuole mandare armi a Kiev resta il più improbabile. Prevede, inevitabilmente, un Pétain al posto di Zelensky. Un presidente disponibile ad accettare, nel nome di una nazione abbandonata dall’occidente al suo destino, un cessate-il-fuoco senza condizioni.

Il seguito è scontato. Mosca smetterebbe di bombardare ma si terrebbe la parte di Ucraina che occupa con centomila soldati. Quella forza di occupazione, fosse pure affiancata da qualche migliaio di caschi blu, garantirebbe che un referendum ratificasse la sovranità russa sulle regioni conquistate. Il Pétain di Kiev dovrebbe accettare la mutilazione di un quinto del territorio nazionale (sarebbe come se l’Italia fosse obbligata a riconsegnare all’Austria il Triveneto).

Al più potrebbe ottenere qualche ritocco dei confini. Ma certo Mosca non rinuncerebbe alla Crimea e al Donbass, avendoli già annessi con voto della Duma. Per la prima volta in sessant’anni una guerra di conquista sarebbe accettata dalla comunità internazionale e il conquistatore avrebbe legittimità a tenersi il bottino. Da quel momento qualsiasi nazione si sentisse minacciata, o volesse minacciare, cercherebbe di moltiplicare i propri arsenali e di dotarsi dell’arma nucleare.

Se interpretiamo correttamente i sondaggi questa “pace” potrebbe essere accolta con favore da una maggioranza relativa di italiani, perché indifferenti alla sorte dell’Ucraina, inconsapevoli degli effetti di un successo di Putin, preoccupati da un rincaro delle bollette o comprensibilmente angosciati dalla carneficina in atto. Un orientamento al disimpegno è in crescita nelle opinioni pubbliche di altri paesi membri della Nato. Il problema è che a Kiev non si vedono candidati al ruolo di Pétain ucraino.

E al momento non vi è un solo governo occidentale disponibile a riconoscere la sovranità di Mosca sui territori che i russi pretendono. Così, fosse solo per mancanza di alternativa, la Nato confida nella controffensiva promessa dagli ucraini. Non riusciranno, questo è chiaro, a riprendersi la Crimea. Ma se ricacciassero indietro l’esercito di Putin, liberando una parte consistente del territorio occupato, Kiev potrebbe accettare un armistizio.

Purché il destino finale delle “terre contese” non venga deciso da un finto referendum. Semmai ci si affiderebbe ad un negoziato al rallentatore che rinviasse per anni la soluzione definitiva. In quel lungo lasso di tempo a Mosca potrebbe insediarsi un governo disponibile ad un vero compromesso, magari perfino alla restituzione, a determinate condizione, di tutto o quasi tutto il territorio occupato.

Questa scommessa richiede comunque che nei prossimi mesi i russi siano costretti ad arretrare su una larga parte del fronte. Esito possibile solo a condizione – spiegano su Foreign Affairs due commentatori influenti, Richard Haas e Charles Kupchan – che gli occidentali aumentino quantità e qualità delle armi fornite a Kiev, e accelerino le consegne. Tank, aerei, perfino missili a lunga gittata per colpire arsenali in territorio russo. Se così rafforzati gli ucraini cominciassero ad avanzare, Washington potrebbe cominciare a discutere le modalità del cessate il fuoco con russi ed europei.

Necessaria neutralità

Tutto questo suona ragionevole ma contiene varie incognite, una enorme. Se la tensione con gli Stati Uniti non cala, a Pechino conviene che gli occidentali continuino a sperperare arsenali, prestigio, coesione e soldi in Ucraina, senza riuscire a districarsi da quella mischia. Se dunque l’esercito russo fosse in difficoltà, la Cina probabilmente correrebbe in soccorso con adeguate forniture militari, soprattutto elettronica: quanto basta perché la guerra prosegua.

Da questo rischio consegue che per gli occidentali è vitale comprare la neutralità di Pechino, ancor meglio la sua collaborazione. Che ha un prezzo grossomodo noto. È nei primi due dei dodici punti espressi a febbraio dal governo cinese, formalmente come via maestra per addivenire ad una pace tra Mosca e Kiev. Al punto uno si riafferma l’inviolabilità dei confini: dunque l’Ucraina non può essere mutilata ma allo stesso tempo non può esserlo la Cina, come accadrebbe se si applicasse al territorio cinese quel principio di autodeterminazione dei popoli invocato da Putin per il Donbass e la Crimea (Pechino pensa anche a Taiwan, con cui vuole “riunificarsi” entro il 2049, teoricamente in modo pacifico).

Al punto due si afferma: «La sicurezza di un paese non può essere ottenuta a spese degli altri paesi; la sicurezza di una regione non può essere ottenuta rinforzando o espandendo alleanze militari; non ci sono soluzioni semplici a un problema complesso».

Qui in apparenza si parla di Nato e di Russia, ma in realtà il riferimento implicito è alle alleanze strategiche strette da Usa e paesi affacciati sul Pacifico, accordi per i quali Washington potrebbe sigillare gran parte del mar Cinese meridionale assestando un colpo micidiale alle esportazioni dell’avversario. Nessun paese potrebbe restare indifferente ad una minaccia tanto acuminata. Per placare le apprensioni cinesi bisognerebbe dunque inventare un compromesso, o abbozzare una nuova legalità internazionale, equivalente agli accordi di Helsinki del 1975: e in questa direzione pareva muovere la linea di politica estera Mattarella-Draghi. Ma l’amministrazione Biden sembra incapace di decidere come regolarsi con Pechino. 

L’autocritica che manca

Beninteso la Cina paga anche colpe proprie: le posture muscolare cui si affida nel confronto con Taiwan e nelle dispute marittime con i suoi vicini; la natura di occhiuto stato di polizia; la repressione degli uigur e dei dissidenti a Hong Kong.

Ma tutto questo non spiega a sufficienza perché la quasi totalità della destra americana e un largo segmento di democrats si ostinino a interpretare la competizione con la Cina come una sorta di conflitto esistenziale tra civiltà intrinsecamente nemiche. Alla stregua di ogni culturalismo anche questo si colora di sfumature razziste: e infatti il 61 per cento  dei 300mila cinesi che studiano negli Usa ha pensato alla possibilità di rimpatriare. 

Eppure, scrive Thomas Friedman sul New York Times, la Cina è il paese più simile all’America, per etica del lavoro e tendenza «spontaneamente capitalista» della popolazione.

Il problema è che è più facile additare all’elettorato americano subdole mene cinesi piuttosto che spiegare perché la Cina abbia superato gli Usa in un parametro significativo come l’aspettativa di vita, perché quasi la metà delle facoltà di ingegneria migliori al mondo sono cinesi (20 su 50), perché negli ultimi anni la Cina ha costruito 900 stazioni ferroviarie per l’alta velocità contro le 15 americane, o perché la cinese Huawei è all’avanguardia nella produzione di tecnologie 5G.

Tutto questo non implica necessariamente che sarà inevitabilmente la Cina a guidare la Quarta rivoluzione industriale. Ma dovrebbe perlomeno spingere gli americani (e per ragioni analoghe gli europei) ad aspre autocritiche e a drastici correttivi. Non accade.

Preferiamo invece stordirci con formule esorcistiche (“democrazie contro autocrazie” piace molto anche all’opinionismo italiano) che ci precludono l’iniziativa: se Russia e Cina appartengono fisiologicamente allo stesso schieramento, risulta inutile negoziare con Pechino per indurla a sbarazzarsi di Putin.

Programma di collisione

Sarebbe più produttivo affrontare la verità. La collisione tra Cina e occidente non è un destino, semmai un programma politico nel quale si mescolano, mai dichiarati, calcoli elettorali, calcoli geostrategici e interessi forti (il comparto militare-industriale americano potrebbe essere chiamato a costruire 500 navi da guerra, quante ne occorrono agli Usa per ristabilire la parità numerica con la flotta cinese nel Pacifico). Questo vasto fronte può contare sulla reattività del nazionalismo cinese, un gorilla non meno aggressivo del suo omologo statunitense. Ma il corso degli eventi non è ancora deciso, l’amministrazione Biden si mostra ambivalente, e sul versante di quanti vorrebbe sventare lo scontro ora sono schierati non solo segmenti dell’industria Usa ma anche quel pezzo di establishment rappresentato da un grande giornale liberal, il New York Times.

Se la Russia aveva di nuovo unificato l’occidente, la Cina lo divide trasversalmente. La linea di fraglia non oppone paesi ma concezioni politiche. E non l’ha creata Macron con la sua visita a Pechino: è nei fatti. E sui fatti occorrerebbe ragionare. A chi conviene la rotta di collisione con Pechino? Di sicuro non aiuta l’Ucraina e indirettamente danneggia le incerte prospettive dell’Alleanza atlantica. Che poi convenga all’Europa e all’Italia, nessuno finora ha tentato di dimostrarlo.

Però in Italia un atlantismo docile e roboante da tempo costruisce il contesto ideologico propizio per risucchiare la Nato nelle tempeste dei mari cinesi. Tra le formule-chiave rimbomba la “guida americana” dell’occidente, concetto metafisico che pareva fanciullesco mettere in discussione perfino quando il guidatore insediato alla Casa Bianca era un figuro.

Liberarsi dal conformismo

Anche a noi italiani converrà esercitare il dubbio sulle verità di fede sgranate da editorialisti “a guida americana”, non meno assertivi dei nostri pétainisti. In ogni caso ci sarà un gran lavoro per accademie e think tank, sempre coinvolti quando occorre inventare una narrazione che nasconda e giustifichi. Ma all’opposto, nell’opinione pubblica un serio contropotere intellettuale potrebbe finalmente esprimere un pensiero non conformista, liberale nel modo più autentico.

Val la pena ricordare quanto accaduto ad Harvard nel febbraio scorso. La School of Law di quella università ha proposto di tenere un corso a Kenneth Roth, ex direttore di Human rights watch, prestigiosa ong di diritti umani.

Due anni prima una poderosa ricerca di Hrw aveva concluso che Israele pratica una forma di Apartheid nei Territori occupati. La decisione di Harvard pareva premiare quella indagine. Secondo Roth in ragione di questo alcuni grandi finanziatori dell’università, verosimilmente amici del governo israeliano, hanno chiesto al rettore di revocare l’offerta (per inciso Roth è figlio di ebrei europei scampati all’olocausto). Il rettore ha revocato. Salvo fare una frettolosa marcia indietro quando è insorto l’intero corpo docente. Morale: ci sono saperi nei quali la distinzione tra una tesi corretta ed una omissiva o sballata coincide con la distanza tra il coraggio e l’ignavia.

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