Un report preliminare di un’indagine condotta dall’Hrl della Yale School of Public Health denuncia la pratica, decisa dai vertici del governo russo. I campi di rieducazione sono almeno 43 e i bambini che tornano a casa sono sempre meno
Un report preliminare, risultato di un’indagine in corso condotta dall’humanitarian research lab della Yale School of public health, denuncia la creazione di un sistema di rieducazione di almeno 6mila bambini ucraini da parte dei vertici del governo russo. L’indagine è parte del progetto Conflict Observatory finanziato dal dipartimento di Stato degli Stati Uniti.
I risultati dell’indagine, condotta con metodi open source senza contatti diretti con testimoni e vittime, sono, come specificato nel report, ancora preliminari e probabilmente i numeri riportati, già spaventosi, potrebbero essere estremamente parziali.
I risultati
Gli atti che emergono dall’indagine «possono costituire una violazione della Convenzione sui diritti del bambino», nonché «un potenziale crimine di guerra e, in alcuni casi, un crimine contro l’umanità».
Infatti, attraverso una rete di almeno 43 strutture adibite allo scopo, il governo russo starebbe procedendo, sin dall’inizio dell’invasione del 24 febbraio, alla rieducazione politica di almeno 6mila bambini ucraini di età compresa tra 4 mesi e 17 anni. I campi di rieducazione sono in massima parte «campi estivi preesistenti» e la rete si estende dai territori occupati del Donbass alla Siberia.
Due strutture, adibite specificamente alla deportazione degli orfani, sarebbero state ricavate dalla conversione di un ospedale psichiatrico e di una casa famiglia. Da qui, i presunti orfani ucraini vengono indirizzati a famiglie russe, residenti soprattutto nell’oblast di Mosca.
Il 78 per cento dei campi sembrano adibiti specificamente alla «rieducazione sistematica» attraverso l’esposizione dei bambini ucraini «a un’istruzione russocentrica», con evidenti riferimenti a elementi della rinnovata e strumentalizzata semantica nazionalista di Mosca, si legge nel report.
Dai documenti esaminati emerge che il consenso dato dai genitori dei bambini sia in numerosi casi estorto, viziato dalla situazione di guerra e occupazione, e molto spesso successivamente violato in merito ai tempi di permanenza dei bambini nelle strutture e alle procedure a cui questi vengono sottoposti. In particolare, i ritorni da almneo quattro campi sono stati sospesi.
Tra le principali giustificazioni della deportazione indicate come «motivazioni» nei documenti russi vi sono «l’accesso a campi ricreativi», «l’evacuazione dal fronte del conflitto», «l’evacuazione per motivi medici» e «l’adozione da parte di famiglie russe».
La maggior parte delle famiglie ha pochissime informazioni sullo stato e l’ubicazione dei propri figli, in alcuni casi sottoposti anche a pratiche simili all’addestramento militare, specie nei campi della Crimea occupata e della Cecenia.
Informazioni parziali
Oltre che per lo stato dell’indagine, attualmente ancora nel vivo, ulteriori fattori fanno propendere per una valutazione dei dati forniti, verificati anche tramite immagini satellitari, come ancora parziali.
In particolare, diverse famiglie potrebbero essere reticenti nel denunciare gli abusi per due ordini di motivi: innanzitutto, per le famiglie ucraine in territorio non occupato, l’aver fornito il consenso alla deportazione, seppur chiaramente viziato, potrebbe costituire motivo di stigmatizzazione sociale sulla base di un presunto collaborazionismo con le forze di occupazione; per le famiglie ancora sotto occupazione, invece, la paura di una ritorsione da parte delle forze russe costituisce un elemento fortemente limitante.
Per quanto parziali, però, le informazioni contenute nella pubblicazione godono di estrema credibilità. In primo luogo, le risorse utilizzate sono di pubblico dominio (ad esempio, alcune immagini dei campi sono state ottenute da Google Earth), dunque immediatamente verificabili. Inoltre, già da tempo circolavano, nonostante l’ampio e pluridecennale sforzo multilaterale per una tutela specifica, timori sulla sorte dei bambini ucraini residenti nelle zone più esposte alle violenze e sottoposte a occupazione.
In questo senso si era, infatti, espressa Michelle Bachelet, alta commissaria Onu per i Diritti umani, all’inizio della scorsa estate, quando, pur mantenendo un doveroso condizionale, l’alta funzionaria esprimeva preoccupazione per l’apparente distanza delle pratiche russe dagli obiettivi «della riunificazione familiare e del rispetto dell’interesse del minore».
I responsabili
Come sottolineato dal report, gran parte dei responsabili appartengono ai membri del più alto establishment russo. Il network farebbe riferimento a due figure di spicco, Sergey Kiriyenko, capo di gabinetto di Vladimir Putin, e Tatyana Moskalkova, commissaria per i diritti umani.
Coadiuvati dai governi regionali e dai leader delle autorità d’occupazione, i due avrebbero agito con fini effettivamente coerenti con la narrativa ufficiale, che vede nell’Ucraina un rifiuto di una storia che ha preso il corso sbagliato, una contingenza nazionalistica sfuggita, anche per colpa dell’eterno nemico occidentale, all’autorità della “Terza Roma”.
La militarizzazione della narrazione pubblica, dell’istruzione e delle identità è ritenuta da Putin e associati funzionale a uno sforzo bellico e “patriottico” che, sull’altare della purificazione del vicinato russo, non risparmia neanche la mente e i corpi di migliaia di bambini.
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