Da venerdì 29 aprile e fino al 6 maggio, in edicola e in digitale un nuovo numero di SCENARI, venti pagine di approfondimenti firmati da Dario Fabbri, Manlio Graziano, Francesca Caruso e tanti altri, con un estratto di Anne Applebaum e le mappe a cura di Fase2studio Appears
Il nuovo numero di Scenari, la pubblicazione geopolitica di Domani, è dedicato al tema della guerra mondiale del cibo: gli effetti alimentari del conflitto in Ucraina minacciano miliardi di persone fragili. In venti pagine, analisi di un disastro e idee per mitigarlo.
Oltre ad approfondimenti inediti firmati da Dario Fabbri e altri analisti e studiosi, le mappe curate dal nostro cartografo Luca Mazzali (faseduestudio/Appears) mostrano i dati sull’inflazione alimentare a livello globale, le turbolenze e le instabilità nella fascia saheliana del continente africano, e si soffermano sull’Ucraina, sia dal punto di vista storico – con la carta sull’Holodomor, la carestia che si è abbattuta sul territorio ucraino dal 1932 al 1933 – sia attraverso gli ultimi aggiornamenti sull’avanzata dell’invasione russa nel paese.
Cosa c’è nell’ultimo numero
Nell’articolo Le ragioni che spingono l’India verso la Russia Dario Fabbri guarda alle motivazioni che hanno spinto la più grande democrazia del pianeta a stare con Putin: vecchi istinti anti occidentali, fame di idrocarburi siberiani e il timore di essere schiacciata sotto l’ombrello americano hanno portato New Delhi a schierarsi apertamente con Mosca, scalfendo in questo modo la versione statunitense che descrive la guerra d’Ucraina come uno scontro tra nazioni liberali e la dittatura russa.
Da due agenzie delle Nazioni Unite, Food and Agriculture Organization (Fao) e World Food Programme (Wfp) arrivano i contributi di Maurizio Martina ed Eugenio Dacrema.
Nel suo articolo La guerra in Ucraina aggrava il dramma globale della fame, il vicedirettore generale della Fao Martina descrive la tempesta perfetta che abbiamo davanti: Russia e Ucraina rappresentano il 30 per cento del mercato mondiale di grano, il 55 per cento di quello di olio di semi di girasole, il 20 per cento del mais, il 32 per cento dell’orzo. E sono ben cinquanta i paesi in via di sviluppo che prima del conflitto ricevevano almeno un terzo del loro grano dai due paesi. La mappa della fame si sovrappone alla geografia dei conflitti e oggi più che mai anche a quella dei cambiamenti climatici: l’Onu lancia l’allarme, parlando di quasi 2 miliardi di persone esposte a insicurezza alimentare, energetica e finanziaria e dunque a rischio fame e povertà.
Dacrema parte invece dalla pandemia che ha sconvolto il mondo in questi ultimi due anni, e che colpisce ancora molti paesi, lasciando ferite profonde nel sistema globale di supply chain e negli equilibri macroeconomici mondiali. Pandemia e shock climatici hanno fatto salire i prezzi delle materie prime alimentari già prima dell’invasione dell’Ucraina, gli effetti del conflitto si abbattono quindi su una comunità internazionale già socialmente ed economicamente stremata, e che vede soprattutto i paesi più poveri a corto di strumenti per rispondere a una nuova crisi.
A seguire, l’analista Manlio Graziano esamina il circolo vizioso geopolitico che condanna la Russia a una sconfitta inevitabile: due volte, nel secolo scorso, un impegno militare superiore alle proprie possibilità ha provocato il collasso e la scomparsa del paese dai radar della politica internazionale. Questa considerazione, da sola, sarebbe dovuta bastare per frenare gli impulsi aggressivi di Mosca, ma non è bastata.
Che sia per la Russia o chiunque altro, ogni tentativo di far prevalere aspirazioni ideologiche ed emotive sul calcolo geopolitico dei vincoli è una ricetta sicura per il disastro.
Cosa succede in Africa
Nel suo articolo L’Africa è la prima vittima della guerra del grano, il politologo Mario Giro riporta l’attenzione sulla lunga lista dei paesi a rischio carestia: mentre l’occidente farà fronte alle necessità pagando di più per le aree più povere del continente africano e per il medio oriente. Dalla “battaglia del grano” ci si deve aspettare un aumento dei costi e la ripresa delle “rivolte del pane”, com’è già accaduto in passato.
Secondo i dati di Nigrizia, nel 2020 i paesi africani hanno importato dalla Russia prodotti agricoli per un valore di 4 miliardi di dollari tra cui circa il 90 per cento del grano consumato. Dopo l’Egitto, i maggiori importatori sono stati Sudan, Nigeria, Tanzania, Algeria, Kenya e Sudafrica. L’Ucraina dal canto suo ha esportato in Africa prodotti agricoli per un valore di quasi tre miliardi di dollari dei quali il 48 per cento è stato grano, il 31 per cento mais, seguono olio di semi di girasole e altri prodotti.
Restando sul territorio africano, l’analista Francesca Caruso si focalizza sul Sahel, la regione che negli ultimi dieci anni è stata nel mirino della politica estera europea a causa della questione migratoria e della minaccia jihadista.
Qui la crisi ucraina non è che un fattore aggiuntivo a una situazione già profondamente complessa. I fattori che contribuiscono alla fame sono diversi: diminuzione della produzione agricola, inflazione economica, persistenza di barriere doganali e, soprattutto, insicurezza. Secondo il Wfp e l’Ifad, a giugno il numero di persone che soffrirà la fame nel Sahel e nell’Africa occidentale raggiungerà un nuovo record, quadruplicando in soli tre anni da 10,7 milioni nel 2019 a 41 milioni nel 2022.
Nel suo articolo La guerra di Putin ha allargato il divario fra Africa e occidente, l’analista Giovanni Faleg ricorda come il 2 marzo 2022, ventisei stati africani (su cinquantaquattro) non abbiano appoggiato la risoluzione delle Nazioni unite che condannava l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia. Il fatto ha avuto poco riscontro mediatico. Ma il segnale politico e diplomatico dei paesi africani è stato forte.
Mentre la distanza tra Europa e Africa è aumentata nel tempo – vuoi per la nuova ondata di colpi di stato militari (Ciad, Guinea, Mali, Burkina Faso), vuoi per le implicazioni della pandemia ma anche per la difficoltà nell’interpretare le necessità reali di paesi che si affacciano sul mondo con aspettative diverse – il Cremlino ha rafforzato la sua presenza nel continente, imponendosi come partner di riferimento in settori chiave quali il commercio di armi o la tecnologia nucleare, e non solo.
Le ricadute ambientali della guerra
Fabio Ciconte e Alessandro Paniè, dell’associazione Terra!, nel loro articolo La campagna per rimandare la conversione ecologica, spiegano come la Commissione europea, spinta dai governi e dalla campagna di terrore su un’imminente carestia impostata dalle lobby agricole e dall’industria alimentare, abbia esentato gli agricoltori dal vincolo di tenere a riposo il 4 per cento dei terreni.
La politica agricola comune (Pac) garantisce infatti sussidi ai produttori che decidono di lasciare queste nicchie incolte a beneficio di uccelli e insetti impollinatori, ma le nuove disposizioni mantengono il sussidio anche se quei terreni verranno spianati per piantarci mangimi per gli allevamenti intensivi. Il tutto pur non correndo alcun rischio alimentare.
Assistiamo così a una speculazione che usa la paura della guerra per fermare le misure ecologiche della produzione alimentare, mentre proprio questa crisi dovrebbe rappresentare uno sprone per cambiare il modello produttivo, riducendo la dipendenza di materie prime dall’estero, decarbonizzando il settore agricolo e diversificando le produzioni.
A seguire, l’agronomo Roberto Pretolani ammette che a ostacolare la capacità del mercato agricolo europeo di provvedere al proprio autosostentamento nei momenti di crisi, sembrano essere i meccanismi di approvazione degli strumenti d’innovazione a disposizione che spesso ritardano lo sviluppo della ricerca e della capacità di trasformazione dei prodotti agricoli: dalle tecnologie di evoluzione assistita o di precision farming all’agricoltura 4.0 i mezzi non mancano ma risentono di lentezze burocratiche e ritardi normativi.
I genetisti Mario Enrico Pè e Leonardo Caproni della Scuola superiore Sant’Anna affrontano il tema degli effetti della guerra in Ucraina sul dramma globale della fame suggerendo alcuni strumenti pratici per prevenire l’insicurezza alimentare: dal momento in cui nell’Africa subsahariana l’agricoltura di sussistenza rappresenta la fonte esclusiva di cibo e reddito per milioni di persone, il perfezionamento di questo modello attraverso lo sviluppo di strategie innovative e il miglioramento genetico delle colture può rendere le attività delle comunità povere più resistenti agli stress climatici, geopolitici e sanitari.
Ma soltanto un modello basato sul coinvolgimento diretto delle comunità rurali, che le trasformi da meri soggetti riceventi a protagonisti diretti dell’innovazione, può avere le qualità necessarie per introdurre approcci tecnologici di avanguardia, mantenendo al contempo quella flessibilità cruciale per favorirne l’accettazione.
Nel suo articolo Ripensare il sistema dei sussidi agricoli per arginare la crisi, l’analista Daniele Fattibene propone di evitare gli errori commessi durante la crisi del 2008 quando la politica dell’assistenza ha impedito la transizione verso modelli produttivi più efficienti e sostenibili: in primo luogo, gli stati e la comunità internazionale devono trovare delle soluzioni diplomatiche per evitare che paesi esportatori decidano di imporre delle restrizioni alle esportazioni di materie prime, tra cui prodotti agricoli o fertilizzanti.
In secondo luogo, i paesi più ricchi devono sostenere i paesi importatori più poveri che non hanno lo spazio fiscale sufficiente per lanciare programmi di protezione sociale che tutelino i gruppi più vulnerabili della popolazione. Infine, secondo Fattibene, la guerra in Ucraina offre (l’ennesima) chance di ripensare totalmente il sistema dei sussidi agricoli, ancora basato su prodotti come il petrolio o i fertilizzanti.
Ferdinando Cotugno ha poi intervistato Bill McKibben, il leader carismatico degli ambientalisti americani che nel 2007 ha co-fondato il network ecologista 350.org e che ha partecipato a ogni protesta su suolo americano contro le fonti fossili dell’ultimo decennio. Secondo McKibben la priorità è «evitare che l’Europa esca da questa guerra ancora più dipendente dal gas di come ci è entrata, per via dei nuovi accordi a lungo termine con altri fornitori, spesso autocrati come Putin».
Le altre analisi
Il politologo Francesco Strazzari analizza a seguire perché è pericoloso abusare del pensiero geopolitico, specie in tempo di guerra: la sorte dei tank russi trasformati in scatole di fiammiferi dalle armi anticarro, o il clamoroso affondamento della nave da guerra Moskva sono infatti frutto di una leadership soggiogata dal proprio credo geopolitico.
Questo tipo di ragionamento, solitamente mobilita definizioni etno-culturali ed essenzialiste dei soggetti politici (o più in generale della nazione), evidenziandone i tratti immutabili, in contrasto con l’idea di identità come negoziato perpetuo. Ma partendo da un malinteso fra teoria e pratica, il rischio è quello di non riconoscere scenari e prospettive che cambiano.
Infine, il nuovo numero di Scenari si chiude con estratto della scrittrice Anne Applebaum, dal libro che ripercorre la tragedia dell’Holodomor: La grande carestia. La guerra di Stalin all’Ucraina (Mondadori).
La grande carestia del 1932-1933 che ha ucciso circa 4 milioni di persone fu provocata anche per distruggere l’identità nazionale ucraina, pericolosa per il progetto sovietico. Una catastrofe così straordinaria richiedeva una giustificazione non meno straordinaria, e il Politburo la fornì in dicembre.
Proprio mentre i nuovi decreti sulle requisizioni alimentari e le liste nere venivano pubblicati, emanò, rispettivamente il 14 e 15 dicembre, due decreti segreti che imputavano esplicitamente il fallimento delle requisizioni all’ucrainizzazione: era stata portata avanti «meccanicamente», senza tenere adeguatamente conto degli scopi cui serviva.
I decreti stabilivano dunque un collegamento diretto fra l’attacco all’identità nazionale ucraina e la carestia. A eseguirli era la stessa organizzazione della polizia segreta. Gli stessi funzionari sovrintendevano alla propaganda che li descriveva. Dal punto di vista dello stato, essi facevano parte dello stesso progetto.
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