La campagna di Kamala Harris sembra aver raggiunto una sorta di picco, con conseguente stagnazione dei sondaggi. Lo certificano tre rilevazioni diffuse nella giornata di domenica. La prima è di Abc/Ipsos Poll e vede la vicepresidente in testa con il 50 per cento contro il 48 per cento di Donald Trump, un calo rispetto ai sei punti di distacco del mese scorso.

Un altro di Cbs/YouGov mostra Harris avanti con il 51 per cento contro il 48 per cento del tycoon, una lieve flessione rispetto a settembre. Infine quello di Nbc è il più preoccupante, perché basato su un campione di elettori già registrati: 48 per cento pari, rispetto al 49 per cento contro 44 del mese scorso.

I rilievi sui sondaggi di questo tipo sono sempre i soliti: sono su base nazionale e non colgono i cambiamenti a livello statale, dove la candidata dem invece ha ancora segnali incoraggianti. Un sondaggio New York Times/Siena Collega, ad esempio, la dà avanti di tre punti in Pennsylvania. Nella stessa rilevazione però c’è un netto svantaggio in Arizona, uno degli stati chiave della vittoria di Joe Biden nel 2020.

La ragione? La scarsa registrazione di nuovi elettori in quota democratica, problema che è accentuato dallo scarso entusiasmo soprattutto nella già citata Pennsylvania, ma anche in Nevada e in North Carolina. Se quest’ultimo stato è stato vinto da Trump per due volte, per il Silver State c’è un grosso allarme perché l’ultimo repubblicano a vincere là è stato George W. Bush nel 2004.

Secondo gli analisti, c’è la disaffezione per i democratici quale partito al potere a Washington che galvanizza poco gli elettori, ma anche un altro elemento: Trump sta diversificando la sua coalizione, non contando più soltanto su una classe ex operaia bianca e insoddisfatta negli stati della Rust Belt, ma facendosi strada anche in territori difficili per il partito repubblicano, primo tra tutti il segmento dei maschi afroamericani, dove il tycoon spera di ottenere il 20 per cento. Non moltissimo, ma di sicuro è un’avanzata significativa per un gruppo dove Mitt Romney nel lontano 2012 raccoglieva soltanto il 4 per cento dei consensi.

Altrimenti non si spiegherebbe come mai l’afroamericano dem più famoso, l’ex presidente Barack Obama, abbia fatto un comizio dove ha parlato usando un particolare dialetto nero, risalente agli anni post-Guerra Civile, per dire proprio agli uomini di «farla finita con le scuse» e di votare per Kamala Harris. Un altro pezzo di elettorato dem dove Trump sta emergendo è, ironia della sorte, quello dei latinoamericani, da lui lungamente insultati con epiteti di vario tipo.

La strategia è di scavare un solco tra le famiglie stabilmente residenti in America e i nuovissimi arrivati, a suo avviso «molto diversi» da chi ha attraversato il confine decenni fa. Una tattica che nel 2020 ha portato alla conquista della Florida e che adesso potrebbe riportare a casa repubblicana l’Arizona. Infine, per Harris, sono arrivate le accuse di plagio da parte dall’attivista ultraconservatore Christopher Rufo su un libro pubblicato nel lontano 2009 da lei scritto in collaborazione con la ghostwriter professionista Joan O C’ Hamilton intitolato Smart On Crime. L’accusa è semplice: Harris avrebbe plagiato ampi passaggi di quel testo anche se, concede Rufo in qualche tweet di risposta, ad averlo fatto potrebbe essere stata la ghostwriter.

Un’accusa che di sicuro smuoverà le notizie in senso negativo per la vicepresidente per qualche giorno, ma ci sono anche dei segnali incoraggianti. In due degli stati dove i dem rischiano di più, Arizona e North Carolina, ci sono due candidati estremisti ipertrumpiani, rispettivamente la giornalista e conduttrice tv Kari Lake e l’attuale vicegovernatore Mark Robinson. Entrambi piagati da scandali, gaffe e uscite estremiste, potrebbero tirare verso il basso anche i consensi al tycoon, che al momento si trova sotto accusa per il suo declino cognitivo, un’arma da lui ampiamente usata contro Joe Biden nei primi sei mesi del 2024.

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