Il tempo che passa senza che Israele assesti il colpo mortale a Hezbollah è un tempo a favore dello stesso Partito di Dio. Stretto in questi giorni da una morsa a tenaglia da parte di suoi alleati e rivali libanesi, il movimento sciita si gioca il tutto per tutto tentando di resistere sul terreno all’invasione nemica.

È una partita da dentro o fuori: se riesce a rallentare o, addirittura, a congelare la sequenza dell’offensiva israeliana, Hezbollah può dimostrare di avere ancora un ruolo da protagonista negli equilibri del Libano e della regione. E può così esorcizzare lo scenario da incubo di un’intesa, siglata alle sue spalle, tra le inossidabili élite libanesi e le potenze occidentali filo-israeliane.

Sullo sfondo, per ora lontano, si staglia lo spettro “Gemayel-82”, in riferimento all’uccisione, con un’autobomba a Beirut nel settembre del 1982, di Bashir Gemayel, leader delle milizie maronite ed eletto solo tre settimane prima capo dello Stato sulla punta dei cannoni israeliani giunti, nel giugno di quell’anno, nel cuore della capitale libanese. L’uccisione di Gemayel scatenò i massacratori di Sabra e Shatila. Il sequel e il prequel di questa storia di sangue sono ben noti.

Il rischio guerra civile

Il contesto odierno è diverso. Ma i rischi di una implosione interna non vanno sottovalutati. Se i leader libanesi, in accordo con gli Stati Uniti e gli altri alleati di Israele, dovessero scegliere il generale Joseph Aoun - attuale capo dell’esercito considerato vicino a Washington - come nuovo presidente della repubblica, Hezbollah potrebbe reagire in maniera violenta, persino puntando le armi all’interno del paese. Come già accaduto nel maggio del 2008.

Altri attori armati, rivali del partito sciita, risponderebbero, così come accaduto nell’ottobre del 2021 sempre nel cuore di Beirut. Lo scenario “guerra civile” favorirebbe Israele. E indebolirebbe ulteriormente il movimento sciita. Soprattutto, accenderebbe a tre ore di volo da Roma nuovi focolai di violenza politica, sofferenze di civili e fughe di massa di migranti verso le nostre coste.

Come già anticipato da Domani, gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, l’Arabia Saudita e gli altri paesi alleati di Washington e dello Stato ebraico sperano che l’offensiva di terra sia fulminea e che decreti la sconfitta militare di Hezbollah. In questo ipotetico scenario, per ora lontano dal diventare realtà, l’esercito regolare libanese dovrebbe dispiegarsi come non ha mai fatto nel sud del Libano a garanzia della “fascia di sicurezza” tanto cara allo Stato ebraico sin dagli anni Settanta. La risoluzione Onu n. 1701 del 2006 legittimerebbe questa mossa. E Joseph Aoun presidente sarebbe il sigillo formale a un golpe dalle conseguenze imprevedibili.

Al centro della manovra c’è Nabih Berri, inamovibile presidente del parlamento, interlocutore sempreverde tra Hezbollah e le forze occidentali. Berri è anche leader del partito-milizia Amal, i cui combattenti sono al fronte a fianco a quelli di Hezbollah ma i cui comandanti non sono stati finora mai presi di mira dai raid israeliani.

Proprio Berri, che eviterà fino alla fine di apparire come anti Hezbollah e che userà il ruolo istituzionale per giustificare le sue manovre, ha presieduto il 2 ottobre scorso un incontro tripartito col premier Najib Miqati e col leader druso Walid Jumblat: sono loro i tre triumviri di un’élite politica sta cercando di capire se un altro Libano sia veramente possibile.

Il dopo Nasrallah

Un Libano senza Hezbollah. O meglio: senza Nasrallah. Nessuno immagina che il partito sciita possa svanire nel nulla, che la sua presenza organica nella società possa cessare di esistere. Ma è evidente che senza Nasrallah e senza un leader di peso (col possibile successore, Hashem Safieddin, si «sono persi i contatti»), il Partito di Dio non conta più come prima nell’equazione di potere libanese.

Con l’uccisione di Nasrallah si sono aperti spazi inesplorati ai vertici della cupola che da decenni domina il paese, sulla base di un interesse strategico condiviso da tutti i capi-bastone libanesi: spartirsi le risorse umane, finanziarie, territoriali del Libano. Nella cupola siedono i principali leader confessionali e istituzionali, ciascuno dei quali è un alleato-cliente di uno o più attori stranieri.

Oltre a Berri e Jumblat, noti per essere i politici gattopardeschi più navigati del paese, capaci di interloquire oggi con Washington e domani con Teheran, c’è Samir Geagea vicino a Israele e c’è Gibran Bassil suo rivale maronita alleato – almeno sulla carta – di Hezbollah. C’è Miqati, più volte premier “tecnico”, uno degli uomini più influenti tra Oriente e Occidente. E c’era anche Hasan Nasrallah.

Questa cupola, che ha finora resistito a pressioni interne senza precedenti – come le proteste di piazza a seguito del palesarsi della peggiore crisi finanziaria della storia del paese – governa secondo l’antica logica del divide et impera: ai vertici la torta viene spartita in maniera trasversale e consensuale, mantenendo ciascun leader la sua autonomia rispetto al rapporto di clientela con le potenze straniere; nelle articolazioni intermedie si alimentano invece, verticalmente, le divisioni interne, adottando una retorica confessionale (“noi contro loro”) e una pratica esclusivista, secondo cui ogni individuo non gode di diritti e non ha doveri, ma è ridotto a cellula comunitaria, costretto a rincorrere incessantemente l’obiettivo di rimanere dentro alla lottizzazione clientelare

Per Berri, Miqati, Jumblat e per tutti gli altri leader di primo, secondo e terzo ordine questa matrix deve rimanere intatta e funzionante. Anche perché domani ci saranno da gestire i fondi per la “ricostruzione” e Miqati ha già presentato una lista della spesa di 426 milioni di dollari.

La distribuzione di servizi essenziali e del welfare in senso largo dovrà continuare a essere esclusiva per rafforzare ed espandere vecchie e nuove clientele interne, soprattutto nelle aree dove dovranno rientrare le centinaia di migliaia di sfollati. Non a caso, con un accordo israeliano-occidentale, per ora l’aeroporto di Beirut rimane aperto e funzionante. Il paese deve rimanere nell’orbita degli amici di Israele.

Ma Hezbollah venderà cara la pelle. Anche senza Nasrallah. E tenterà, a partire dalla resistenza all’invasione israeliana, di conservare un posto nella cupola che conta. In questo senso, il numero due del partito, Naim Qassem, si è rivolto nei giorni scorsi proprio a Berri: «Il nostro caro fratello maggiore». Va bene negoziare il cessate il fuoco, ha detto Qassem in diretta tv, ma tutto ciò che riguarda il dopo-il cessate il fuoco andrà discusso collegialmente. Nella cupola. Dove intendiamo rimanere.

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