- Mercoledì 29 dicembre 2021 oltre duecento agenti della nuova «Sezione sicurezza nazionale» irrompono nella redazione dello «Stand News»: chiude l’ultimo giornale d’opposizione di Hong Kong.
- La prima cittadina Carrie Lam, con un passato da attivista, è riuscita a smantellare le libertà di Hong Kong su ordine di Xi Jinping e del partito comunista cinese in soli quattro anni.
- L’impatto sul movimento pandemocratico è devastante. Molti, come Avery Ng finiscono in prigione. Qualcuno, come Ted Hui, tenta una fuga rocambolesca all’estero e chiede asilo politico.
Mercoledì 29 dicembre 2021 oltre duecento agenti della nuova Sezione sicurezza nazionale della polizia di Hong Kong irrompono nella redazione del giornale online Stand News, sequestrano computer e archivi, arrestano sei tra dirigenti e giornalisti e sospendono le pubblicazioni di uno dei pochi media d’opposizione superstiti in città.
La scena si ripete lunedì 3 gennaio nella redazione di Citizen News, un piccolo e combattivo sito indipendente. Per la prima cittadina Carrie Lam si tratta degli ultimi trofei da esibire al partito comunista cinese nella lunga galleria di voci ridotte al silenzio, dallo scrittore di gossip Gui Minhai fino al quotidiano Apple Daily e al suo editore, il miliardario Jimmy Lai.
Identikit di una leader
Chi è dunque la chief executive Carrie Lam, e come è riuscita in meno di quattro anni al potere a smantellare pezzo dopo pezzo le libertà di Hong Kong? Sessantaquattro anni, figlia della classe lavoratrice del nord della città, reputazione di negoziatrice scaltra e intransigente, la sua traiettoria politica è segnata dall’ambivalenza, il tratto che riassume l’essenza più pura di Hong Kong.
Come alcune delle principali figure dell’opposizione a cui dà la caccia, Carrie Lam è cristiana, ha studiato al St. Francis’ Canossian College e tutt’oggi si definisce cattolica. Da studentessa conduce campagne per i diritti delle fasce disagiate della società di Hong Kong e nel 1980, dopo la laurea in sociologia, entra nei ranghi dell’amministrazione cittadina, all’epoca ancora sotto la dominazione britannica.
La sua biografia sembra costellata di bivi; se qualcosa fosse andato diversamente, forse sarebbe finita tra le fila degli attivisti che sta mandando in carcere. O forse l’aristocrazia di Hong Kong, un pugno di famiglie globalizzate dai patrimoni immensi, che ieri appoggiavano le leggi coloniali di Londra e oggi sono legate a doppio filo a Pechino, ha sempre saputo che genere di chief executive andava coltivato per mantenere lo status quo: un politico di estrazione popolare, dotato, ambizioso, esperto di meccanismi burocratici e di psicologia degli hongkonghesi. Carrie Lam è un’apostata; ecco perché è la leader perfetta per scatenare la repressione.
Sicurezza nazionale
Nel 2017 diventa chief executive, mentre i gruppi politici nati dalla «rivoluzione degli ombrelli» del 2014 sembrano capaci di saldarsi con il fronte pandemocratico e conquistare la maggioranza al mini parlamento locale battendo lo schieramento pro Pechino. Il presidente Xi Jinping e il partito comunista cinese le conferiscono un mandato talmente saldo che ha il carattere dell’investitura, e dopo alcune schermaglie nell’aprile 2019 Carrie Lam allunga la sua prima zampata: una nuova legge sull’estradizione che condurrebbe gli imputati di Hong Kong davanti a un tribunale cinese, dove non sono garantiti difesa, giusto processo o terzietà del giudice.
Tra il 9 e il 16 giugno oltre tre milioni di hongkonghesi scendono in piazza per protesta in un’escalation che conduce prima a un assalto al parlamento, poi a un anno di manifestazioni sempre più radicali e disperate, e culmina con la fine del sistema semi democratico della città: la legge sulla Sicurezza nazionale, calata dall’alto da Pechino su Hong Kong per individuare e punire i reati di «secessione, sovversione, terrorismo e complicità con potenze straniere».
Immaginate di andare a letto la sera del 30 giugno 2020 in una città dove è possibile esprimere liberamente la vostra opinione, associarsi, protestare in strada, accedere a una stampa libera e votare candidati di qualsiasi schieramento.
Il giorno dopo, al risveglio, tutte queste libertà sono state abrogate. Ancora peggio: immaginate l’istituzione di un Ufficio per la salvaguardia della sicurezza nazionale composto da funzionari di Pechino, che non rispondono alle leggi di Hong Kong ma possono decidere arbitrariamente che una manifestazione pacifica di fronte a un palazzo governativo costituisce il reato di “sovversione”, punibile fino a dieci anni di carcere.
Il processo iniziato nel 2015 è giunto a compimento, il principio “un paese-due sistemi” che regolava i rapporti tra Pechino e Hong Kong è crollato. L’impatto sulla comunità di attivisti pandemocratici è devastante.
Sovversione
Avery Ng è il presidente della Lega dei socialdemocratici, partito fondato da “Long Hair” Leung, leggendario attivista capace di protestare tanto contro la corona britannica che contro la strage di piazza Tienanmen. Alto, allampanato, deciso, durante la “rivoluzione degli ombrelli” del 2014 Avery era in prima fila per contrastare gli assalti contro i manifestanti sferrati dalle triadi, che accusava di collusione con la polizia, ma nella primavera del 2020, con la legge sulla sicurezza nazionale che incombe come una ghigliottina, suona più preoccupato che mai.
«Nelle ultime settimane, anche durante la pandemia, la polizia di Hong Kong ha già impiegato tecniche molto dure per reprimere le proteste e temo che con la legge assisteremo ad arresti di massa. L’obiettivo della legge consiste nel criminalizzare la libertà di espressione e di parola. Ogni voce che sfida l’autorità del governo di Pechino rischia la repressione», racconta Avery.
Le sue parole sono profetiche: reduce da una retata che ha colpito quindici tra le figure più rappresentative del movimento pandemocratico, nel maggio 2021 Avery Ng viene condannato a 14 mesi di reclusione con l’accusa di manifestazione non autorizzata e oggi è in attesa di un processo per sovversione. Da allora qualsiasi comunicazione per informarsi sulle sue condizioni diventa impossibile: i familiari temono che una conversazione con i media esteri possa condurre all’accusa di «complicità con una potenza straniera».
Fuga a Copenaghen
In pochi mesi cadono il miliardario conservatore Jimmy Lai e l’83enne avvocato democratico Martin Lee, due personaggi che in condizioni ordinarie avrebbero militato in schieramenti contrapposti, ma a Hong Kong si opponevano insieme al fronte pro Pechino. La paura serpeggia in tutta la città, dai grattacieli di Central agli insidiosi vicoli di Kowloon.
I protagonisti della “rivoluzione degli ombrelli” come Joshua Wong sono già in carcere, oppure sono in libertà condizionale come Agnes Chow. Tutti si chiedono chi sarà il prossimo. Mentre le autorità vietano le veglie per ricordare la strage di Tienanmen, il parlamentare democratico Ted Hui sprofonda nella paranoia.
«Ero seguito costantemente e ad agosto la situazione era diventata così pesante che ormai guidavo con gli occhi fissi sullo specchietto retrovisore. Un pomeriggio ho inchiodato e sono sceso ad affrontare i due uomini che mi seguivano: dicevano di essere giornalisti, ma si trattava di agenti dell’Ufficio per la Salvaguardia della Sicurezza Nazionale», racconta oggi.
Tra settembre e novembre Hui subisce diverse perquisizioni domestiche, e capisce di avere i giorni contati. «Ho intuito che era la mia ultima occasione per lasciare Hong Kong, e ho preso la decisione». Ted Hui, che si occupa di ambiente, ha contatti con Thomas Rohden e Anders Storgaard, due giovani parlamentari danesi che organizzano un falso summit sulle energie rinnovabili a Copenaghen.
«Conoscevano la mia situazione e volevano aiutarmi a fuggire da Hong Kong, anche se non ce lo siamo mai detti esplicitamente», spiega Hui. «Sapevano che ormai tutti i miei telefoni erano sotto controllo, quindi non abbiamo mai discusso apertamente dell’operazione. È successo tutto senza dirsi una parola». Il primo dicembre 2020 il parlamentare democratico atterra all’aeroporto di Copenaghen.
Due giorni dopo, Ted Hui fa richiesta di asilo politico al Regno Unito. Tutti i suoi conti correnti vengono bloccati. La magistratura spicca un mandato di cattura nei confronti di Hui, accusato di violazione dei termini della libertà condizionale, partecipazione a manifestazione non autorizzata e vari altri capi d’imputazione. Qualche mese dopo, il governo di Hong Kong emette un comunicato ufficiale: «Daremo la caccia a tutti i fuggitivi».
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