Dopo giorni di proteste contro le nuove tasse culminati con l’assalto al parlamento, il presidente del Kenya William Ruto ha annunciato il ritiro della legge di bilancio che aveva scatenato la sommossa popolare. «Dopo aver ascoltato attentamente il popolo del Kenya, che ha detto forte e chiaro che non vuole avere nulla a che fare con questa legge finanziaria, chino la testa e non la firmerò, quindi sarà ritirata», ha detto Ruto. Martedì scorso negli scontri sono morte almeno 22 persone e altre 300 sono rimaste ferite. Cinquanta manifestanti sono stati arrestati
I fatti di Nairobi sono un segnale per le classi dirigenti africane e anche per noi. Non siamo davanti all’ennesima rivolta etno-politica, come già avvenuto in Kenya e altrove, o a tentativi di destabilizzazione golpisti o jihadisti. Siamo davanti alla ribellione di un’intera generazione che vede messo a repentaglio il proprio futuro.
I giovani keniani assaltano il parlamento perché sono delusi: vogliono essere ascoltati dagli adulti ma vendono che le loro aspirazioni non sono accolte. Ciò avviene in molti altri paesi del continente.
In Africa è in corso un cambiamento antropologico: al posto della vecchia cultura solidaristica, tra i giovani – in specie urbanizzati – si impone una cultura competitiva e materialistica. La spinta a ricercare il proprio interesse individuale è molto forte.
L’impulso a emigrare
Lo stesso impulso a emigrare va letto come conseguenza di tale situazione: anche nei paesi più avanzati come il Kenya è scemata la speranza nel futuro del proprio paese. Sui giovani africani pesa una mentalità competitiva che provoca rabbia: hanno imparato che la vita è violenta e ogni cosa va conquistata in un ambiente ostile (sia a casa propria che altrui).
L’insicurezza rende tutto molto competitivo e le reti solidaristiche di ieri non funzionano più. Tra generazioni si è aperto un fossato che prima non c’era. Tale situazione fa anche calare il livello etico generale: se tutto è messo in vendita e niente è più gratuito, il diritto a protestare con violenza viene sentito quasi come naturale.
Alla cultura dell’assistenzialismo si va sostituendo un atteggiamento competitivo che provoca aggressività perché tutto avviene troppo velocemente e senza ammortizzatori. Anche in Africa le fratture del tessuto sociale e la fine delle sistemi di sicurezza sociale (come quello gratuito sanitario e educativo delle chiese) ha lasciato il posto alla cultura della privatizzazione: tutto si paga e aumenta sempre di più. Da qui le proteste di questi giorni con i giovani che se la prendono con uno dei simboli del potere democratico.
Rifiuto del passato
Per le nuove generazioni keniane e africane, la questione del futuro è legata al rifiuto del passato (sia quello tradizionale che coloniale e/o post-coloniale), così come al ripudio dei propri leader attuali, considerati fallimentari. La retorica delle vecchie generazioni africane è che le cose si debbano fare insieme. Il sogno di tale generazione è stato l’indipendenza. Le delusioni successive hanno mutato tale orientamento nei giovani: ora al primo posto viene il destino individuale.
La fine del sistema pubblico in Africa e la sua privatizzazione è all’origine di molte delusioni e rabbie: i giovani non accettano più la sperequazione. Uno dei motivi ricorrenti è la collera contro lo stato e i potenti i quali, mentre mandano i propri figli nelle scuole all’estero, abbandonano i giovani lasciando andare in rovina le strutture scolastiche, non pagano gli insegnanti rurali, non costruiscono strade per raggiungere i villaggi, non si curano della sanità ecc.
I giovani delle grandi periferie urbane non sono sprovvisti di informazioni sulla realtà circostante e si formano le loro opinioni soprattutto sui social media. Non si prende sufficientemente in considerazione il fatto che la gioventù africana nel suo complesso è molto più collegata di quanto si creda con la cultura occidentale e globale, ed è al corrente di ciò che accade.
Nessun giovane vuole morire per malattie curabili in Europa e che magari una volta si curavano anche in Africa, ad esempio. La reazione all’aumento delle tariffe sui beni di prima necessità in Kenya, così come del sistema di transazione finanziario quotidiano M-Pesa usato da tutti, è frutto dell’osservazione comparativa sugli altri settori di sviluppo: i giovani vedono che la privatizzazione dell’economia avanza ma in parallelo il settore pubblico declina.
Di per sé non ci sarebbe opposizione sul settore privato (molto avanzato in Kenya) se fosse mantenuto uno standard decente anche nei settori sanitario ed educativo nazionali. Le università keniane – pur tra le migliori in Africa – sono in crisi o diventano sempre più care, seguendo modelli occidentali.
A Nairobi la posta in gioco non è l’influenza russa o cinese né un tentativo di destabilizzazione politico: è a rischio la tenuta del sistema occidentale in quanto tale. Se il modello economico non regge, l’incontro/scontro con un’intera nuova generazione potrebbe creare fratture sociali in cui altri soggetti (violenti e criminali) potranno inserirsi. Aiutare il Kenya a mantenersi è nel nostro interesse: si tratta del paese dell’Africa orientale più vicino all’Occidente e all’Italia da tutti i punti di vista.
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