La mano dura annunciata dalla rettrice dell’ateneo newyorchese Minouche Shafik non ha sortito gli effetti sperati nel risolvere pacificamente le manifestazioni studentesche a sostegno della Palestina, anzi, la situazione si è aggravata con l’irruzione dentro gli uffici dell’università con conseguente occupazione. Una situazione che si sta replicando in diversi campus e che ha ripercussioni politiche anche nel campo democratico
Dall’accampamento permanente alla Columbia University si è arrivati a un’irruzione dentro un edificio amministrativo, la Hamilton Hall, con conseguente occupazione. Siamo quindi ben lontani dalla soluzione auspicata dalla rettrice Minouche Shafik che, annunciando la richiesta d’intervento della polizia, sperava di poter riprendere presto l’attività didattica. Invece il quadro della situazione somiglia sempre più a quello che è successo nel 1968 ai tempi delle proteste contro la guerra del Vietnam.
Anche allora c’erano delle barricate negli uffici dell’università. I vertici dell’università è sempre di netto rifiuto dell’attuale situazione, senza venire incontro alle richieste degli studenti che hanno deciso per l’occupazione dell’edificio rinominato “Hinds Hall”, dal nome di una bambina palestinese di sei anni uccisa nel corso del conflitto a Gaza da parte dell’esercito israeliano.
Non solo: gli iscritti all’università ritenuti responsabili delle proteste e dell’occupazione stanno venendo puniti e sospesi mentre la polizia sta cercando di risolvere la situazione, senza ricorrere allo scontro come chiesto dai due senatori Tom Cotton e Josh Hawley, entrambi trumpisti e repubblicani, la scorsa settimana. La situazione, quindi, rimane tesa e al momento un appello fatto circolare dai ricercatori della Columbia sta raccogliendo qualche adesione affinché cessino le proteste e vengano amnistiati i manifestanti non ritenuti colpevoli né di violenze né di hate speech.
Pochi però i firmatari tra i professori. Nel resto del paese, anche altri atenei registrano situazioni di tensione, con molti arresti da parte delle forze dell’ordine: 13 studenti sono stati fermati all’Università di Princeton, in New Jersey, per aver tentato un sit-in dentro un’aula, mentre a Chapel Hill, sede dell’Università del North Carolina, le manette sono scattate per trenta persone che stavano partecipando a un’occupazione. Linea dura anche da parte dell’Università della Florida, dove è rettore l’ex senatore repubblicano del Nebraska Ben Sasse. Un comunicato diffuso dall’ateneo dice che «gli studenti non sono bambini. Se violano le regole, verranno puniti di conseguenza». Il quadro che emerge però è che l’originaria idea degli iscritti alla Columbia ha trovato decine di emuli in tutto il paese soltanto dopo che la rettrice Shafik ha deciso di far intervenire la polizia, e il caso più eclatante è quello del campus del Politecnico della California ad Arcata, cittadina a nord di San Francisco: lì l’occupazione degli uffici va avanti da una settimana e include la sede del rettorato, rinominata “Intifada Hall”.
In alcune circostanze però, sono stati trovati accordi tra le istituzioni accademiche: è il caso della Northwestern University in Illinois, dove sono state consentite le manifestazioni pacifiche fino al primo giugno e in cambio però c’è stata la rimozione delle tende dei manifestanti. Non solo: l’accesso è consentito soltanto agli iscritti ai vari corsi di laurea.
In questa vicenda però salta agli occhi la quasi nulla solidarietà del mondo politico progressista. Anzi alcuni democratici, come il deputato della Florida Jared Moskowitz, chiedono che le proteste cessino per il loro carattere “antisemita” e per come alcuni studenti e ricercatori ebrei non siano tutelati nella loro sicurezza. La questione ha anche una ripercussione al Congresso: la Camera domani dovrebbe votare per l’Antisemitism Awareness Act, una legge che chiede al Dipartimento dell’Istruzione per rafforzare la sua lotta all’antisemitismo usando però delle definizioni controverse del tema, tra cui l’impossibilità di definire le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi come “razziste”.
Un argomento quindi che rischia di scavare un solco nel coeso gruppo democratico guidato dal leader di minoranza Hakeem Jeffries, che finora ha avuto buon gioco nell’additare il caos che ha scosso per diverse volte la controparte repubblicana. Non stupisce però che lo speaker Mike Johnson, in genere molto prudente nel proporre nuove leggi da votare, in questo caso sia stato estremamente celere argomentando che il disegno di legge ha sostegno bipartisan, ignorando volutamente il fatto che i quattordici firmatari dem sono centristi particolarmente legati al sostegno alle politiche israeliane. Tutto questo però non avrà alcuna conseguenza sulle manifestazioni in corso nel paese, che non accennano a diminuire.
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