Bibi non accoglie la richiesta di non ingaggiare battaglia a Rafah, dove milioni di gazawi sono stretti fra l’Idf e il muro dell’Egitto. 26 stati membri dell’Ue chiedono «una immediata pausa umanitaria che porti a un cessate il fuoco credibile», dice Josep Borrell
La sfilza di “no” di Benjamin Netanyahu mette in difficoltà chi punta a spegnere il conflitto in Medio Oriente. Nonostante le pressioni internazionali, Bibi non accoglie la richiesta di non ingaggiare battaglia a Rafah, dove milioni di gazawi sono stretti tra i Merkava di Tsahal e il sempre più alto muro egiziano, ultima forzosa barriera a una nuova dispersione palestinese fuori dalla Striscia.
Il premier israeliano, che nel proseguimento della guerra vede la garanzia della propria sopravvivenza politica, sostiene che i fautori dello stop desiderano che Israele «perda la guerra»: questo, a suo avviso, vorrebbe dire impedire l’ultima fase dell’operazione mirata alla distruzione totale di Hamas che, secondo forze armate e intelligence militare, disporrebbe ancora di quattro battaglioni nella città di confine con l’Egitto.
Rinuncia che, secondo la nuova dottrina strategica del «nessun nemico ai confini», minerebbe la sicurezza del paese. Annientare il potenziale militare di Hamas – quello ideologico è tutt’altra, e assai più complicata, faccenda – e uccidere Sinwar, se non è già perito nei bombardamenti, è il sigillo che Bibi vuole apporre a “Spade di ferro”. Sebbene la guerra sia la prosecuzione della politica con altri mezzi, prima o poi la politica rivendica il proprio primato.
Bibi sa che, se non Hamas con le sue intransigenti posizioni, a vincere politicamente il conflitto vinto militarmente da Israele potrebbero essere, comunque, i palestinesi. La riesumazione della formula dei “due stati” ha questo significato per Netanyahu e l’estrema destra nazionalreligiosa e kahanista che lo sostiene.
L’obiettivo delle due destre non è, solo, liquidare il movimento islamista palestinese, ma imporre lo scenario “Gaza senza Hamas, Palestina senza stato”, ennesima variante della politica del fatto compiuto sul quale si fonda la continuità del dinamicissimo immobilismo israeliano in materia .
Nell’intento di comprare tempo e, soprattutto, nell’attesa di un possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca, Netanyahu chiede al suo governo, del quale fa parte anche Blu e Bianco di Gantz, candidato Usa alla successione dello stesso Bibi, che mediante questo passaggio punta a ingabbiarne i margini d’azione dell’alleato-rivale, di allontanare la prospettiva dei “due stati”.
Alza, così, gli scudi davanti al tentativo di «imporre ad Israele in maniera unilaterale uno stato palestinese». Un accordo con i palestinesi può nascere solo da trattative bilaterali, scandisce il premier, che ribadisce il “no” a quello che viene sprezzantemente definito un «diktat internazionale».
Motivandolo con l’argomentazione che «un riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese, dopo il massacro del 7 ottobre, elargirebbe un premio enorme al terrorismo... ed impedirebbe qualsiasi accordo di pace in futuro». Sorvolando, Bibi, sul fatto che il “diktat” viene, in primo luogo, dagli Stati Uniti, principale alleato di Israele.
La posizione di Biden
Ma quanto potrà resistere Netanyahu alla crescente insofferenza del presidente Usa, al temibile fantasma del prezzo che il candidato democratico Biden rischia di pagare per il sostegno selettivo a Israele, posizione che tra i giovani americani e i musulmani a stelle e strisce, in particolare quelli che vivono negli swing states del Midwest decisivi nella sfida elettorale con Trump, appare sempre più intollerabile e, certo, non esauribile negli inusitati, quanto impotenti, improperi telefonici scagliati dall’inquilino della Casa Bianca contro il suo riottoso interlocutore fattosi quasi dissidente?
L’America spinge per una tregua di sei settimane, che Netanyahu rifiuta perché ne comprende a pieno il significato politico di apripista a un negoziato più ampio: quello che consentirebbe a Washington di mettere in campo ufficialmente la proposta dei due stati con il corollario finale dell’intesa con l’Arabia Saudita di Bin Salman e di un patto collettivo per garantire la sicurezza di Israele.
Un accordo assai difficile da respingere. Se Biden tagliasse gordianamente l’intricato nodo, Bibi dovrà cedere e, a quel punto, cadrà per decisione della destra messianica, che già invoca la cancellazione degli accordi di Oslo se andrà avanti il riconoscimento “unilaterale” di uno stato palestinese.
Poco potrebbe, allora, il “no” a nuove elezioni che, a conferma della volontà di durare, secondo il premier dovrebbero tenersi «tra anni»: a conferma che nello stato di eccezione della guerra prima di tutto c’è l’unità del paese. Se, invece, Biden si mostrasse titubante, l’impotenza americana verrebbe svelata, infliggendo a Washington un danno politico senza precedenti. Perché se un potere che si vuole mondiale non riesce a farsi ascoltare, la sua deterrenza politica è minata alla radice.
Per non infliggere all’alleato una simile umiliazione, Bibi potrebbe essere tentato da un’audace mossa del cavallo: l’allargamento del conflitto a Hezbollah , destinato a provocare un coinvolgimento dell’Iran che dovrebbe indurre gli Usa a serrare i ranghi e schierarsi con un alleato più che mai fedele al principio «contare solo su noi stessi». Calcolo “macchiavellico” che consentirebbe, insieme, di distruggere la minaccia del Partito di Dio e allontanare ogni “velleità” di stato palestinese.
Ai molti “no” di Bibi si aggiunge la decisione di limitare l’accesso alla Spianata delle Moschee, durante il Ramadan, degli arabi israeliani, pronunciato su insistenza del leader dell’estrema destra e ministro della Sicurezza nazionale Ben-Gvir nonostante il parere contrario dello Shin Bet. Decisione ispirata da «esigenze di sicurezza» che, in realtà, occulta le posizioni dell’ala messianica e annessionista dell’esecutivo, che rivendica la sovranità su quello che, secondo la tradizione ebraica, è il Monte del Tempio.
Violazione della libertà di culto, subito denunciata da Hamas che nel mese sacro chiama a una nuova intifada, destinata a insufflare nel conflitto un plusvalore religioso che lo fa lievitare.
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