Sulla questione della popolazione civile di Gaza si gioca il destino, anche politico, di questo conflitto. Il desiderio di distruzione di Hamas di Netanyahu si scontra con i rischi dell’allargamento della guerra
Ecco Tsahal davanti alla trappola, politica prima ancora che militare, di Gaza. Se irrompere nella Striscia con i Merkava, pur ipertecnologici e dalla corazza “impenetrabile”, non sarà, comunque, una passeggiata – nella guerra urbana, in particolare quella combattuta tra le macerie e con nemici votati al “martirio”, anche i mezzi più moderni e potenti sono esposti a imprevedibili insidie – il vero rischio per Israele è che la determinazione a reagire “come mai prima” si trasformi in nemesi. Se la guerra, anziché ripristinare la deterrenza, si trasformasse in punizione collettiva per i palestinesi, la sua capitalizzazione diverrebbe problematica.
La nuova dottrina delle emozioni – un controsenso politico dal momento che una dottrina che si vuole strategica dovrebbe avere come imperativo quello di sfuggire a simili pulsioni – improvvisata sotto il peso dei drammatici eventi del 7 ottobre e, dunque, mal valutata nei suoi possibili effetti, reclama il “mai più”.
Proposito che implica la fine del lungo status quo costruito sull’architettura dei nemici ideologici, Hamas e Hezbollah, limitati al confine sud e al confine nord. Nemici contro i quali intervenire con dei blitz in caso di attentati, lanci di razzi, cannoneggiamenti.
Dislocazione ritenuta controllabile militarmente, che non imponeva prezzi politici troppo elevati: gli islamisti sunniti lasciati a governare un territorio che, da Sharon in poi, gli stessi israeliani avevano ritenuto ingovernabile; gli islamisti sciiti, il Partito di Dio longa manus locale del khomeinismo iraniano, che più divenivano potenti nel Paese dei Cedri, sino a diventare in perno del sistema politico su base confessionale , meno erano tentati dall’immolarsi nello scontro di Israele.
Il tutto condito con il calcolato depauperamento di un’impotente leadership , residuo di un passato che qui lo è davvero, come quella dell’Olp e della sua embrionale proiezione statale, l’Anp, schiacciata nella tenaglia di Hamas e di Israele.
Quest’ultimo non ha mai concesso a Abu Mazen nulla di spendibile per consolidare la presa della sua organizzazione in campo palestinese . Anzi, l’ha delegittimata con il via libera all’espansione delle colonie nei territori che dovevano costituire lo spazio di un futuribile stato palestinese.
Distruggere Hamas
Con l’operazione “Spade di ferro” Israele si propone ora di cancellare tutto questo e ridisegnare, innanzitutto, l’assetto dello spazio confinario. Allontanando i nemici, creando una fascia di sicurezza che consenta di intercettarli e combatterli prima che accada quel che è accaduto oltre la recinzione rivelatasi mero feticcio metallico. Il tutto non prima di aver distrutto Hamas nella Striscia e, eventualmente, il braccio armato del Partito di Dio a nord che, non a caso, si prepara a affrontare lo scontro.
Ma i vincoli di un simile ridefinizione strategica sono molti. A partire dal fattore tempo, sempre decisivo nella guerra , qui più che mai “continuazione della politica con altri mezzi”. Se l’intervento a Gaza durasse qualche settimana, se i combattimenti casa per casa, tunnel per tunnel, impedissero la rapida riuscita dell’azione di Tsahal, se Hamas resistesse oltre l’immaginabile, la situazione della popolazione civile – ormai priva di cibo, acqua, cure sanitarie, energia elettrica-, diverrebbe ancora più catastrofica.
A quel punto, Israele dovrebbe fare i conti con il mutato clima di empatia seguito al 7 ottobre, che si riverbererebbe anche sui governi mediorientali che certo non lo osteggiano. Non è un caso che il segretario di Stato Usa Blinken abbia ribadito nel corso del suo viaggio mediorientale, che il «come ci si difende» è essenziale per le democrazie.
Richiamo che invita a non spingersi “oltre la linea” dove ogni vantaggio morale verrebbe dissipato. Le cose potrebbero complicarsi se il meridiano zero di quella poco invisibile linea venisse varcato: cosa non esclusa, se non altro perché in questa partita Netanyahu si gioca, più che il futuro politico, ormai compromesso, la possibilità di uscire di scena come il “vendicatore”, come il leader che ha distrutto chi voleva distruggere Israele; e il clima politico nel paese non è certo incline a umanitarismi verso gli “arabi”.
Connotazione psicologica, questa, che può indurre il premier a non calcolare bene le conseguenze di talune scelte, anche se l’istituzione di un gabinetto di guerra, del quale fa parte anche il partito di Gantz, appena entrato nell’esecutivo, dovrebbe circoscrivere un simile rischio.
Prospettiva meno incerta se il nuovo esecutivo, non certo un governo di unità nazionale bensì il vecchio governo allargato a parte dei centristi, avesse incluso anche le altre forze politiche: la formazione di Lapid e quelle , sia pure ormai di minore peso elettorale, di sinistra. Il governo di guerra dovrà, invece, fare i conti con la linea dura invocata dalla destra messianica di matrice nazionalreligiosa e kahanista, che facendo spostare l’esercito dal confine con Gaza, sguarnendolo, per tutelare gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, ha favorito la debacle del “sabato nero”.
Gli altri attori
Sebbene nemmeno Hezbollah e l’Iran vogliano un conflitto che potrebbe sfociare in una sconfitta destinata a mettere fine alla loro influenza o regime- Libano e Iran attraversano crisi finanziarie e politiche non facilmente gestibili- le principali forze dell’asse sciita non potrebbero restare inerti di fronte a una guerra totale a Gaza. La loro stessa retorica ideologica, incentrata sulla “distruzione dell’entità sionista”, le condanna a non restare a guardare, pena la loro delegittimazione religiosa e politica : nel caso di Teheran, anche la perdita del ruolo di influente e temuta potenza regionale.
Vi è poi il problema del consenso interno dei paesi che ospitano la diaspora palestinese, Egitto , Giordania, Siria, oltre che lo stesso Libano, che nel caso di un conflitto percepito come guerra contro gli “arabi” potrebbero uscire dallo stato di quiete, più o meno obbligata , di questi anni su quel fronte.
La questione della popolazione civile di Gaza diventa, dunque, decisivo in questo drammatico conflitto. Non a caso Hamas, vuole che non sia fatta uscire, cosa che , del resto, nemmeno l’Egitto, che dovrebbe ospitare un nuovo, immenso, destabilizzante, campo profughi, desidera. Hamas, anzi, se ne fa, in qualche modo, scudo politico, ordinandogli, pur senza successo, di non sfollare.
Senza Gaza Hamas perderebbe l’oggetto del proprio potere e consenso , non facilmente ricostituibili altrove. I civili sono la carta per costringere Israele a limitarsi a un’operazione militare dura ma che non la distrugga. A sua volta, se Israele trasforma, anche oggettivamente, la guerra in guerra alla popolazione, vincerà militarmente ma rischia di perdere politicamente.
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