La comunità cristiana si è notevolmente ridotta negli ultimi decenni a causa di politiche discriminatorie e delle guerre, non ultima quella contro l’Isis. Nel paese però c’è chi guarda con speranza al futuro
Il monastero di Deir Maryam al-Adhra non è facile da trovare. Nascosto tra i vicoli stretti del centro di Sulaymaniyah, seconda città più grande del Kurdistan iracheno, l’edificio si distingue dagli altri per il campanile e la croce in metallo che lo sormonta, chiaro segno della sua identità religiosa. Un’identità, quella cristiana, che rischia di scomparire dall’Iraq ma che continua ancora a resistere nonostante guerre e violenze.
Nel cuore di Sulaymaniyah
Il monastero della Vergine, con i suoi piccoli mattoni color ocra che risplendono con la luce del sole, è circondato di quell’aurea un po’ austera che accomuna tutti i luoghi di culto. Una volta varcato il cancello di ingresso, però, ci si trova di fronte a uno scenario inaspettato. Il cortile interno, a pianta quadrata e con un piccolo giardino al centro, è animato dal via vai di giovani ragazzi e ragazze arrivati nel monastero per seguire la lezione di lingua del giorno. Riuniti in piccoli capannelli in diversi punti del cortile, parlano tra loro in arabo o in inglese per ripassare le nozioni apprese nei giorni precedenti, mentre alcuni gatti si aggirano tra le loro gambe in cerca di qualcuno che gli dedichi attenzioni.
Come è facile intuire, quello di Deir Maryam al-Adhra è un luogo di culto a suo modo fuori dal comune. Qui si tengono corsi di lingua, di teatro, forum di discussioni e seminari sul futuro del Kurdistan iracheno e sul dialogo interreligioso, fondamentale in un paese in cui è presente una grande varietà di confessioni, non tutte sempre accettate allo stesso modo.
Il Kurdistan iracheno, regione autonoma del nord dell’Iraq, presenta una grande varietà di lingue ed etnie: qui si parlano il curdo, l’arabo, ma anche il turcomanno e l’aramaico, mentre i musulmani – sia sciiti che sunniti – vivono fianco a fianco con ebrei e cristiani delle chiese caldea, siro-cattolica, siro-ortodossa, ma ci sono anche zoroastriani, yazidi, manichei e kakai. In passato nella regione autonoma era molto diffuso anche il sufismo, corrente spirituale del sunnismo soppiantata negli anni da visioni più radicali della religione musulmana, come il wahabismo e il salafismo.
Rischio estinzione
A rischiare di scomparire, adesso, è il cristianesimo. Politiche discriminatorie e conflitti, non ultimo quello contro lo stato islamico, hanno ridotto sempre di più il numero di cristiani in Iraq, nonostante il forte legame storico. I primi fedeli si stabilirono nel paese nel I secolo, ma negli ultimi trent’anni si è passati dai 1,4 milioni di cristiani che vivevano in Iraq alla vigilia della seconda Guerra del Golfo a circa 150mila. Un crollo a cui hanno contribuito le politiche messe in atto da Saddam Hussein, le guerre succedutesi negli ultimi decenni e la persecuzione dello stato islamico.
Quest’ultima infatti ha avuto come conseguenza anche un forte esodo di cristiani, in particolare dalla valle del Ninive, un’area situata a nord dell’Iraq, nei pressi della città di Mosul, diventata dal 2014 al 2017 la capitale del Califfato guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Nella notte tra il 6 e il 7 agosto del 2014, circa 120mila cristiani sono stati costretti alla fuga, abbandonando una regione in cui il cristianesimo era arrivato ben venti secoli prima.
Del Ninive sono originarie anche le 250 persone ospitate sempre a partire dal 2014 dal monastero di Sulaymaniyah, che si è subito attivato per dare rifugio agli sfollati, come spiega padre Jens, priore e fondatore della comunità di Deir Maryam al-Adhra insieme a padre Paolo Dall’Oglio. Per la comunità cristiana del Ninive, però, non è stato facile adattarsi al nuovo contesto sociale. «C’era un problema di comunicazione», spiega padre Jens.
La lingua ufficiale del Kurdistan è il curdo, mentre nel resto del paese si parla arabo e le due comunità non conoscono che la loro lingua nella maggior parte dei casi. «C’erano persone che non sapevano parlare il curdo, per questo abbiamo istituito dei corsi. Poi il progetto si è ampliato e abbiamo aperto anche ai non cristiani, ampliando l’offerta linguistica. Adesso insegniamo anche inglese e arabo».
I corsi di lingua sono stati un successo e sono serviti anche ad andare oltre divisioni etnico-religiose che ancora regolano i rapporti umani in Iraq, Kurdistan compreso. «Quello che facciamo qui è rompere gli schemi. I nostri studenti sono musulmani, cristiani, sabei, alcuni zoroastriani. Questo è un luogo di mescolanza», aggiunge padre Jens.
Per il priore è fondamentale dialogare e lavorare con i giovani per arrivare a dei veri cambiamenti nel paese. La popolazione è costituita in larga maggioranza da persone sotto i 35 anni, ed è a loro che padre Jens cerca di rivolgersi per costruire un Iraq diverso, più inclusivo e più giusto, in cui ci sia posto per tutti. Anche per i cristiani.
«Questa divisione così netta tra comunità è recente», spiega con calma padre Jens mentre sorseggia una tisana da una grande tazza di vetro. «La situazione è cambiata negli ultimi decenni, ancora prima dell’avvento di Saddam, anche se con lui si è decisamente accentuato».
Le politiche imposte dal dittatore e dal suo partito, il Ba’ath, sono state molto dure nei confronti dei cristiani, sempre più propensi a quel punto ad abbandonare il paese. «Prima un terzo della popolazione era cristiana, poi però ci sono state le guerre mondiali, le guerre del Golfo, quella con l’Iran, i conflitti interni, e infine l’Isis. In molti sono andati via».
Dall’Isis a oggi
La caduta dello stato islamico non è bastata a mettere fine all’esodo dei cristiani. «In tanti vivono con la valigia pronta, quindi non pensano nemmeno a costruirsi un futuro qui», spiega con rammarico padre Jens. Nella sola città di Mosul, fino al 2003 vivevano 24mila cristiani ma dopo l’occupazione dell’Isis ne sono tornati soltanto 350.
Una fuga definitiva che ha caratterizzato anche la comunità del Ninive, troppo spaventata dal pericolo di nuovi attentati per convincersi a tornare alle proprie case.
In moltissimi casi, inoltre, le abitazioni sono state distrutte dalla guerra o riempite di ordigni esplosivi dai miliziani dell’Isis. Sei anni dopo, le zone finite sotto la bandiera del Califfato non sono ancora del tutto bonificate e c’è chi ancora perde la vita a causa di una trappola esplosiva nascosta dietro una porta, sotto un tavolo rovesciato o ancora più semplicemente sotto il coperchio di una pentola.
L’esodo forzato, però, ha avuto come conseguenza anche la nascita di nuovi quartieri cristiani, come quello di Ankawa a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. Girando per le strade del sobborgo che sorge a nord-ovest della città è facile imbattersi in chiese di diverse dimensioni o vedere appese sulle pareti dei negozi immagini sacre della Madonna circondate in alcuni casi da un giro di piccole luci bianche.
Anche la comunità di padre Jens continua a resistere, nel segno di quell’integrazione con le altre confessioni religiose che guida da sempre la comunità monastica al-Khalil, fondata da padre Dall’Oglio – scomparso in Siria nel 2013 – e promotrice del dialogo tra fedi diverse. Le difficoltà certo non mancano, ma da quando la situazione emergenziale dettata dall’avanzata dell’Isis è stata superata, è tempo di guardare al futuro e continuare a promuovere il dialogo interreligioso.
Mentre padre Jens conclude il suo discorso, dalla finestra aperta sul cortile del monastero entra il suono delle campane che chiamano alla messa della sera. La chiesa di Deir Maryam al-Adhra, realizzata nel 1862 e sopravvissuta al bombardamento inglese del 1923, accoglie ogni giorno la piccola comunità dei fedeli e il loro sacrestano.
Dietro l’altare, poggiata su una delle colonne, c’è una foto di padre Dall’Oglio. Il volto leggermente inclinato e un sorriso bonario sulle labbra, sembra voler infondere coraggio agli astanti, invitando chi incrocia il suo sguardo a non darsi per vinto. Come i cristiani in Iraq.
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