La resistenza di Hamas a una soluzione è inscalfibile, quella delle due destre israeliane pure. Per mutare la scena gli Usa dovrebbero togliere l’appoggio al Netanyahu e offrirlo a Gantz
Un doppio no, quello di Hamas e di Netanyahu ai “due stati”, che complica ogni soluzione: non solo per il dopoguerra. Gli opposti ma convergenti rifiuti non hanno, infatti, carattere tattico, ma costituiscono elementi identitari degli attori, politici e religiosi, che li alimentano.
Per bocca di Khalid Meshal, uno dei suoi più importanti leader all’estero, Hamas ribadisce l’obiettivo di uno stato palestinese “dal mare al fiume e dal nord al sud”, rappresentazione in cui non vi è spazio per Israele. Certo, parlando di quell’aspirazione, Meshal usa parole come “speranza e sogno”, categorie dell’impolitico più che del Politico, ma riconferma che la sua organizzazione non riconosce nemmeno ”i confini del '67", elemento su cui ruota ogni ipotesi di mediazione internazionale. Puntualizzazione che allontana ulteriormente ogni, vaghissima, possibilità di accordo su questo terreno.
È il dna ideologico che induce il movimento fondato dallo sceicco Yassin a ritenere non negoziabile un compromesso definitivo con “l’entità sionista”. Hamas non accetta di dividere con Israele la Palestina: tanto meno Gerusalemme, terzo luogo santo dell’islam, secondo la credenza religiosa teatro dell’ascensione al cielo del Profeta Muhammad. Prospettiva, quella implicita in questa posizione che implica la cancellazione di Israele dalle mappe che , per equilibri politici e asimmetrie militari, appare, almeno nel breve e medio periodo, del tutto irrealizzabile.
Come ogni movimento islamista, però, Hamas ha una concezione circolare e non lineare del tempo. In questa astorica dimensione temporale, le traversie e le umiliazioni che il credente deve affrontare – come quelle che sta attualmente vivendo a Gaza – sono ritenute passeggere. Una condizione dal quale sarà “liberato” una volta che la fondazione di uno stato islamico in Palestina sarà realizzata. Un fine, questo, che non ammette cedimenti e può tollerare al massimo una hudna, una tregua, anche lunga anni, non destinata, in alcun modo, a sancire la rinuncia ai propri teleologici fini. Per Hamas, dunque, possono esserci momenti tattici e compromessi, già registratisi in passato, che possono indurre l’organizzazione a collaborazioni competitive con altre forze palestinesi, persino a fasi di non belligeranza attiva con Israele, ma i principi restano intangibili.
Le due destre
In Israele il fronte del rifiuto è incentrato, in primo luogo, sulle due destre, quella nazionalista del Likud e quella di matrice nazionalreligiosa del Mafdal, il Partito sionista religioso, e dei gruppi suprematisti, di filiazione kahanista, come Potere ebraico. Il no di Netanyahu ai “due stati”, si basa, formalmente, su considerazioni di sicurezza: i confini di Israele riconosciuti internazionalmente non sono ritenuti difendibili.
Per questo, come ha sostenuto il premier, «in qualsiasi accordo futuro Israele deve controllare con sicurezza tutto il territorio a ovest del Giordano»: dunque anche dei territori che, secondo gli accordi di Oslo, dovrebbero essere governati dai palestinesi. Affermazione che nega alla radice la possibilità di uno stato palestinese sovrano e prevede, al massimo, la concessione di una sorta di bantustan in kefiah. Prospettiva inaccettabile non solo per Hamas ma anche per gruppi secolari come Fatah , che pure si richiama agli accordi firmati da Arafat e Rabin. Per la destra messianica nazionalreligiosa, che vede nel possesso dell’intera Eretz Israel biblica e il conseguente ritorno della diaspora nell’agognata terra , la condizione per l’avvento della Redenzione, ogni ipotesi di restituire i Territori occupati è fuori discussione: per i seguaci della teologia della Terra vorrebbe dire interrompere un processo divino che essi intendono, invece, accelerare.
L’intesa tra le due destre è solida perché – al di là del fatto che l’appoggio della corrente attivistico-messianica è indispensabile per Netanyahu, destinato altrimenti a cadere – si fonda su un comune elemento, divenuto, di fatto, il perno della “costituzione materiale” di Israele: il possesso/ controllo del territori palestinesi, che entrambe non riconoscono come tali. Per scardinare il blocco costituito dagli opposti ideologismi in campo , le forze che , a livello interno e internazionale, credono ancora alla possibilità dei due stati- opzione oggi fragile ma non gravida di rischi quanto il permanere della situazione attuale, destinata a generare conflitti ciclici- hanno una sola chance: favorire diversi equilibri politici. In campo palestinese ciò sarà possibile solo se l’Anp, guidata da una differente e non delegittimata leadership, diventerà davvero l’interlocutore della comunità internazionale. Il che implica dare questo schieramento carte spendibili: solo se otterrà risultati tangibili sul terreno della nascita di uno stato , quella leadership potrà togliere consenso al rivale interno. Altrimenti Hamas, pur sconfitta militarmente a Gaza, si ricostituirà con ben altra forza in Cisgiordania.
La sponda di Gantz
Quanto a Israele, gli Usa dovrebbero prendere atto che Netanyahu non solo vuole continuare la guerra a Gaza e, forse, in nome della “sicurezza”, estenderla al Libano per mettere fuori gioco Hezbollah, ma rifiuta ogni “consiglio”, pur chiedendo a Washington di sostenerlo finanziariamente e in aiuti militari. Se vuole mutare scena, la Casa Bianca dovrebbe togliere palesemente l’appoggio a Bibi, offrendo una sponda al più malleabile Gantz, incoraggiato a uscire dal governo. È l’unica opzione a disposizione di Biden prima che la corsa presidenziale entri nel vivo e paralizzi tutto. Caldeggiando l’ipotesi dei “due stati” l’America guarda al futuro e anche ai propri interessi strategici, ma per Bibi e i suoi alleati messianici il paesaggio dopo la battaglia non prevede alcun stato palestinese.
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