Colpire Gaza, magari raderla al suolo, convincendo i suoi abitanti che finalmente impareranno una lezione che ricorderanno in eterno, infliggendole una vendetta biblica è infilarsi, una volta di più, in un vicolo cieco
Dopo quanto è successo in Israele, siamo stati chiamati ad affermare che «siamo tutti israeliani» e chi non lo fa sta «con i terroristi». Forse che, dopo la strage del Bataclan, non ci siamo sentiti di dire «siamo tutti francesi»? O che, dopo l’11 settembre, qualcuno non abbia voluto dire «siamo tutti americani»? Dopo il Bataclan, però, non ce ne fu bisogno. Perché, quindi, ce n’è bisogno oggi, per giunta contro un movimento come quello di Hamas?
Hamas, è noto, è un movimento fondamentalista religioso, estremista, che fino a oggi aveva colpito Israele con lanci di razzi e attentati. Un movimento che però, nel 2006, si era affermato in regolari elezioni a Gaza. Forse più per la disaffezione che i palestinesi provavano per Fatah che per meriti propri. Israele e gli Stati Uniti avevano risposto rifiutando il risultato del voto, delegittimando Hamas come partito politico democratico. Da allora, la Striscia – ove Fatah, in conflitto con Hamas, non ha consenso – è stata relegata in un limbo.
La strategia di isolamento di Fatah era però cominciata vent’anni prima almeno quando Israele, prim’ancora che Hamas si formasse, aveva ritenuto che, sostenendo l’estremismo islamico, si sarebbero potenziate forze che avrebbero opposto l’Olp e Fatah, secolare ma di sinistra. Anche se l’estremismo islamico non avesse mostrato il suo volto assassino ormai in più di un’occasione, avrebbe dovuto essere chiaro fin dall’inizio che il rifiuto di Hamas della soluzione dei due stati – sostenuta da Fatah – originava in realtà dall’idea che la Palestina era terra solo per i figli dell’islam e per nessun altro. E il perdurare nelle politiche di Israele della nozione che Hamas potesse essere un utile interlocutore perché divideva i palestinesi si è solo mostrata di una cecità auto-compiacente.
Urge una soluzione
Nel tempo, Hamas è stato finanziato dall’Iran e dal Qatar, il paese che ha ospitato i Mondiali di calcio, in chiave anti israeliana. Nella Gaza isolata dal resto del mondo, Hamas ha potuto reclutare migliaia di giovani militanti disposti a immolarsi per la causa santa di eliminare Israele. Quello di Hamas, però, non è un esercito: non gli si può rispondere come si farebbe in una “normale” guerra.
A un attacco terroristico, per quanto in grande scala, non si può reagire come a un’invasione militare con mezzi corrazzati e fanti. Ed è anche per questo che il bombardamento di Gaza appare velleitario e inutile, come se questo fosse in grado di vanificare la potenza di fuoco di Hamas, che sta invece altrove. Colpire Gaza, magari raderla al suolo, convincendo i suoi abitanti che finalmente impareranno una lezione che ricorderanno in eterno, infliggendole una vendetta biblica è infilarsi, una volta di più, in un vicolo cieco. Perché i palestinesi esistono e la questione palestinese urge di una soluzione che dia anche a loro un territorio e uno stato in cui non sono chiusi in un ghetto, circondati da muri e fili spinati.
Così un muro è stato eretto tra quelli che «sono con Israele», con l’occidente e i suoi valori, e gli altri. Ma dov’erano tutti questi difensori dei valori quando è stata lanciata l’operazione “Piombo fuso” nel dicembre 2008 per colpire Hamas che in otto anni, con i suoi lanci di razzi, aveva provocato appena 15 morti in Israele? L’operazione, durata un paio di settimane con bombardamenti e irruzione di forze di terra a Gaza, è costata a Israele 13 militari caduti, mentre sono stati migliaia i morti palestinesi. Ci sono stati, in quel caso, dichiarazioni all’insegna del «siamo tutti palestinesi»? E per il massacro alla moschea di al-Aqsa, a Gerusalemme nel 1990 durante la seconda intifada, siamo forse stati tutti «con i palestinesi»?
A Gaza, come ricorda Fintan O’Toole, secondo la leggenda ebraica ripresa da John Milton, Sansone, catturato dai Filistei, finì con gli occhi strappati, condannato a spingere una mola in tondo fino alla fine dei suoi giorni. Come è noto, nel più spettacolare dei suicidi, Sansone otterrà la sua vendetta facendosi crollare addosso il loro tempio, seppellendovi sotto i Filistei. Una storia solo apparentemente eroica, perché è solo tragica: crudeltà genera crudeltà lasciando nient’altro che mutua distruzione.
La leggenda di Sansone appare nel libro dei Giudici, nel quale Dio lascia i figli di Israele alla mercè dei loro nemici come punizione per «aver fatto ciò che è male davanti agli occhi del Signore». I Fratelli musulmani, i precursori di Hamas, avevano lo stesso credo. A Gaza, dopo la vittoria di Israele nella guerra del 1967, i Fratelli si erano convinti che la perdita della Palestina era una punizione di Dio per avere trascurato l’islam. E oggi, con credenti religiosi al potere da una parte all’altra del muro di Gaza, sembra di essere ancora di fronte a una stessa visione oscurata dal sangue.
L’avere provocato il furore di Israele contro la popolazione di Gaza sapendo che questa non potrà difendersi, tra l’altro, mostra quanto poco Hamas tenga ai suoi stessi civili, tanto quanto tiene a quelli di Israele. Così come è profondamente scioccante che ora l’intera popolazione di Gaza venga privata di tutto, cibo, acqua, luce, e bombardata. La rappresaglia contro civili non combattenti è stata dunque stabilita come reazione uguale e opposta ai crimini di Hamas, che fa presagire orrori maggiori di quelli già causati dai bombardamenti. Più che ribadire come ogni volta da che parte sta la civiltà e dove la barbarie, l’occidente potrebbe darsi da fare perché si parli di pace e coabitazione, che da crudeltà non può che nascere crudeltà. Ma, si sa, la storia ci insegna che «il fardello dell’uomo bianco» è quello e quello resterà, finché i popoli del mondo riterranno che ne hanno abbastanza.
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