La Cina è rimasta ai margini del confronto televisivo trasmesso il 10 settembre scorso dalla ABC, durante il quale Kamala Harris e Donald Trump si sono dati battaglia soprattutto su lavoro, immigrazione e diritti civili. E a Pechino, in attesa del responso delle urne del 5 novembre, stanno attenti a non lasciarsi sfuggire alcuna “preferenza” per il prossimo inquilino della Casa bianca, il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti che dovrà gestire una relazione bilaterale mai così tesa dal 1972, da quando Richard Nixon avviò il “rapprochement” tra i due paesi andando a incontrare Mao Zedong a Pechino.

Tuttavia per la leadership del partito comunista farà una certa differenza dover fronteggiare per i prossimi quattro anni l’internazionalismo democratico o l’isolazionismo repubblicano, anche se, concordano i policy maker cinesi, chiunque vinca non cambierà il contesto di fondo, segnato dalla rivalità strategica tra i due paesi.

Una strada messa nero su bianco da Trump nel 2017 nella sua strategia di sicurezza nazionale, che individuò nella Cina una «potenza revisionista» che mira a «erodere la sicurezza dell’America», e ribadita nell’analogo documento pubblicato nel 2022 da Biden (rispetto al quale ci si attende che Harris agirebbe in continuità), nel quale la Cina viene descritta come «la sfida geopolitica più importante dell’America».

Gli aiuti a Taiwan

Per approntare le loro contromosse i cinesi studiano le differenze tra i due candidati alla presidenza, a partire dall’approccio a quella che è diventata la relazione bilaterale più importante per il futuro del pianeta. Harris parla di «competizione del XXI secolo, che deve essere vinta dagli Usa, non dalla Cina, rafforzando invece che rinunciando alla nostra leadership globale».

Xi Jinping e compagni si aspettano che Harris proseguirebbe il lavoro di Biden di consolidare le alleanze Usa, a cominciare da quelle nel Pacifico, con i paesi “like-minded”, con le democrazie liberali che temono l’ascesa del gigante autoritario cinese. E che andrebbe avanti con la strategia che il consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha definito «cortile stretto col recinto alto»: limitare l’accesso della Cina solo a quelle tecnologie (microchip avanzati, intelligenza artificiale, informatica quantistica, ecc.) che segneranno lo sviluppo industriale e militare del futuro.

A Pechino però ritengono che gli Usa vogliano in realtà “contenere” la Cina, come l’Unione sovietica durante la Guerra fredda. E seguono con preoccupazione iniziative come la “settimana della Cina”, che si è svolta al Congresso a metà settembre su impulso del bipartisan Comitato speciale della Camera sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese (istituito da Biden) e che ha visto approvare 25 leggi per «combattere le minacce del Partito comunista cinese», su agricoltura, auto elettriche, propaganda, istituti Confucio e così via.

Come che sia, Trump pensa invece di frenare le ambizioni di Pechino con mosse più muscolari, e potenzialmente destabilizzanti per gli scambi globali. A esempio imponendo dazi del 60 per cento sulle merci importate dalla Cina e revocandole lo status di nazione favorita (“most favoured nation”) nelle relazioni commerciali (ci provò già Clinton nel 1993, costretto a una precipitosa marcia indietro da Corporate America), e inoltre bloccando l’importazione dalla Cina di beni essenziali e impedendole l’acquisto di terreni negli States.

Anche su Taiwan i due candidati hanno preannunciato mosse differenti. Trump infatti pretenderebbe da Taipei – così come dai paesi della Nato – che paghi di più gli Stati Uniti per la sua difesa, alla quale Washington è obbligata dal Taiwan Relations Act del 1979. Mentre Harris garantirebbe un appoggio senza condizioni alla protezione dell’isola e – come dichiarato dalla stessa vice presidente – l’opposizione a «qualsiasi cambiamento unilaterale dello status quo».

Tre scenari

Su Foreign Affairs tre ricercatori cinesi (Wang Jisi, Hu Ran, Zhao Jianwei) hanno sostenuto che sullo sfondo del duello Harris-Trump negli Usa si confrontano tre «scuole di pensiero sulla Cina, dalle quali verranno selezionati i funzionari che dovranno occuparsene. I “combattenti della nuova Guerra fredda” vedono la competizione Usa-Cina come un gioco a somma zero: ne fanno parte l’ex vice consigliere per la sicurezza nazionale Matt Pottinger e il deputato repubblicano Mike Gallagher, che con un articolo pubblicato sulla stessa rivista si sono candidati a ricoprire un ruolo di spicco».

«Poi ci sono i “manager della competizione” (tra i quali il politologo Rush Doshi), che ritengono che bisognerà elaborare una strategia per coesistere con la Cina che preveda un mix di competizione e cooperazione. Infine i “concilianti” (tra i quali spiccano gli studiosi di relazioni internazionali Jessica Chen Weiss and James Steinberg) che temono che la rivalità esasperata possa sfociare in uno scontro aperto e che per questo promuovono la cooperazione tra Washington e Pechino sui grandi dossier internazionali».

In tutto questo un peso l’avranno anche i 2,4 milioni di elettori statunitensi di origine cinese, concentrati nelle roccaforti democratiche della California (944.859) e di New York (424.430), ma con solide radici anche in Texas (126.892), Massachusetts (90.787) e New Jersey (86.430). Una forza d’urto rappresentata al Congresso dal deputato repubblicano Vince Fong e dalla collega democratica Judy Chu, entrambi eletti nel Golden State al cui sviluppo i minatori e gli operai cinesi immigrati nella seconda metà dell’Ottocento contribuirono in maniera determinante.

Il fattore Walz 

Quattro anni fa, gli asiatici-americani che hanno votato per la prima volta hanno contribuito alla vittoria di Biden sull’allora presidente Donald Trump negli stati chiave. Da allora, il loro numero è aumentato del 15 per cento, ovvero di circa 2 milioni di aventi diritto. Così il 5 novembre circa 15 milioni di asiatici-americani rappresenteranno circa il 6 per cento dell’elettorato Usa, terzo gruppo etnico subito dopo i 36,2 milioni di ispanici (14,7 per cento) e i 34,45 milioni di afroamericani (14 per cento).

Rispetto al 2020 è cresciuta di undici punti (dal 45 al 56 per cento) la porzione di elettori americani di origine cinese che si riconosce nel partito democratico mentre è aumentata solo di un punto (dal 20 al 21 per cento) quella che si identifica con i repubblicani ed è rimasta invariata quella degli “indipendenti”, il 38 per cento.

La discesa in campo di Harris ha galvanizzato il tradizionale sostegno al partito democratico degli statunitensi di origine cinese: ad aprile-maggio avrebbe scelto Biden il 54 per cento, salito a settembre al 65 per cento dopo la sostituzione in corsa con la sua vice. A Trump invece è accreditato soltanto il 24 per cento del sostegno di questa minoranza con livelli d’istruzione mediamente elevati e le cui priorità sono l’economia, l’assistenza sanitaria e la lotta al crimine. L’unica comunità di origine asiatica che sosterrà con meno entusiasmo il miliardario repubblicano è quella vietnamita, con il 20 per cento.

Mentre tra i policymaker nessuno si fa illusioni in tal senso, il 45 per cento di cittadini Usa di origine cinese ritiene che un’amministrazione Harris potrebbe migliorare le relazioni Cina-Usa (il 21 per cento che in quest’ambito farebbe meglio Trump e il 23 per cento nessuno dei due). Secondo l’analisi di U.S.-China Perception Monitor, il motivo principale per cui questa fetta di elettorato preferisce Harris ha un nome e un cognome: Tim Walz, che diventerebbe il vice presidente se Harris entrasse alla Casa bianca.

Infatti, secondo il think tank statunitense, «solo quattro cinesi americani su dieci vedono la Cina in una luce positiva, mentre la maggioranza sostiene la promozione dei diritti umani in Cina da parte degli Stati Uniti. Walz ha sia una familiarità con la Cina che una lunga esperienza nella difesa dei dissidenti cinesi e dei diritti umani, una combinazione insolitamente sfumata che piace a molti cinesi americani».

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