Le idee del presidente Usa terremotano l’intesa, dando fiato alla destra messianica. In pericolo anche l’avvio della fase 2 per definire il futuro assetto della Striscia
Il ciclone Trump si abbatte sulla “riviera” di Gaza: la fragile tregua è più che mai a rischio dopo le esternazioni del presidente Usa sul futuro della Striscia. A controprova, la decisione di Hamas di far slittare il nuovo rilascio di ostaggi previsto per il fine settimana.
Il gruppo islamista attribuisce l’impasse al mancato rispetto degli accordi in materia di circolazione della popolazione, rifornimenti, alloggi provvisori e tende, oltre che all’istituzione di una fascia di sicurezza, al confine ma dentro Gaza, trasformata dall’Idf in invalicabile e bersagliata “terra di nessuno”. A sua volta, Israele protesta per il trattamento degli ostaggi, la cui liberazione, come sanno le famiglie e l’Idf, è stato un obiettivo secondario nel corso della guerra.
Frasi di fuoco
«Se Hamas non restituisce gli ostaggi entro sabato a mezzogiorno, il cessate il fuoco verrà interrotto e l’Idf tornerà a combattere», tuona Netanyahu. «Gli ostaggi devono essere liberati tutti sabato», gli fa eco il presidente americano.
In realtà, sono le stupefacenti affermazioni trumpiane – di deciso stampo neocoloniale, con quel «comprare e possedere Gaza» che prevede lo sfollamento, la definitiva dispersione dei gazawi e il prevedibile passaggio di quello stesso territorio a Israele – a terremotare l’accordo. Dando fiato alla destra estrema israeliana, nazionalista e attivistica messianica, che reclama non solo la distruzione di Hamas, ma anche il tramonto di qualsiasi ipotesi di soluzione imperniata sulla sempre più esile, ma senza reali alternative, formula dei due stati.
Confermando di ignorare la storia e l’identità palestinese, The Donald ha snocciolato “soluzioni” che richiamano la Nakba, la catastrofe politica e militare culminata nell’esodo del 1948. Parole che hanno riprodotto memorie mai svanite, oltre che odi insuperati.
Quelli che Trump vorrebbe scacciare da Gaza sono, infatti, gli stessi palestinesi, o i loro figli e nipoti, fuggiti, o costretti a farlo, in quel fatidico anno. Quelli per cui la reliquia più venerata è la chiave della casa che hanno dovuto abbandonare allora. I gazawi non intendono affiancare ora a quella chiave anche quella dell’abitazione di Gaza, pur ridotta in macerie. Sanno che se andranno via non torneranno più: del resto, sono eloquenti le parole di Trump sul fatto che nel caso di spostamento fuori dalla Striscia il ritorno non sarà un diritto.
Prospettiva ben chiara a un popolo che, oltre a essere senza stato, si ritroverebbe anche senza territorio, presupposto essenziale del primo. Sgomberata Gaza, e di fatto annessa la Cisgiordania, lo stato palestinese resterebbe poco più che una vaga suggestione. Esattamente quello a cui mirano le destre israeliane, galvanizzate da uno scenario che solo un anno fa appariva impossibile.
Il fattore Trump, ha ammesso Netanyahu di ritorno dal viaggio americano, ha cambiato il gioco. E consente a Israele di provare a cancellare una sconfitta politica – cristallizzata dalla propagandistica dimostrazione di forza esibita da Hamas durante il rilascio degli ostaggi – tanto più cocente perché esito di un’indiscutibile vittoria militare. Per il gruppo palestinese, resistere e obbligare il nemico a trattare è invece – a discapito della distruzione di Gaza e della sofferenza imposta a una popolazione civile immolata come capro sacrificale – un successo. E ciò è intollerabile per Bibi e i suoi alleati.
Cambiare le carte in tavola
Il ritorno di Trump consente ora a Netanyahu, e agli intransigenti fautori della Grande Israele biblica, di rimettere in discussione l’accordo voluto dall’amministrazione Biden.
Ormai liberatosi dell’inviso presidente dem e contando sugli scenari annunciati dal nuovo inquilino della Sala ovale, Netanyahu non vuole affatto l’avvio della fase 2 che dovrebbe mettere in agenda il futuro assetto di Gaza e la prospettiva di un pur futuribile stato palestinese.
Contrariamente a quanto accadeva nell’era Biden, gli obiettivi strategici di Netanyahu e Trump ora coincidono pienamente. Nella Striscia ridotta a nuovo Boardwalk Empire possono esserci solo marines e croupier, grandi alberghi e casinò, turisti e svettanti grattacieli: non certo palestinesi. Trump è convinto che Egitto e Giordania, finanziariamente e militarmente sostenuti dagli Usa, si piegheranno e accetteranno di farsi carico dei gazawi.
Così come abbozzerà anche il sin troppo pragmatico saudita Bin Salman. Secondo il tycoon, dollari e cannoni possono tutto: il mondo si adeguerà.
Constatando il palese venir meno delle garanzie americane sull’accordo, Hamas mostra che il re è nudo. Cosa mai può garantire un garante che, in sintonia con la parte avversa, intende spostare i palestinesi fuori da Gaza mentre il negoziato in corso dovrebbe porre le basi per un futuro assai diverso?
Un nodo che nemmeno un Trump che si sente onnipotente può tagliare gordianamente, minacciando di scatenare «l’inferno» se gli ostaggi non saranno liberati. Perché un accordo tiene solo se le parti che lo hanno stipulato – malgrado le riserve – giocano, anche temporaneamente, lo stesso gioco. Se cambiano le carte in tavola, difficilmente la partita può andare avanti.
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