Su un totale di 46 presidenti americani ben quattordici hanno subito attentati. Quattro con esiti fatali. Thomas Matthew Crooks si aggiunge al catalogo. Profili diversi accomunati da un desiderio: essere ricordati
John Flammang Schrank, chi era costui? Gli attentatori dei presidenti americani o candidati tali riempiono un vasto catalogo di profili diversi, attivisti politici, pazzi, infiltrati, doppiogiochisti, rancorosi per motivi personali, killer prezzolati. Ma con un denominatore comune: il desiderio di essere ricordati, di passare alla storia.
Il narcisismo dell’aspirante omicida che si pone l’obiettivo supremo, legare il suo nome all’inquilino della Casa Bianca o in procinto di entrarci, l’uomo più potente del mondo. Ma non tutti diventano Lee Harvey Oswald, l’assassino di John Fitzgerald Kennedy. E invece della storia si devono accontentare della cronaca.
Qualche titolo, pure a nove colonne, e il lento scivolare verso l’oblio, sino a fissare la parabola di caduta della propria onomastica in polverosi archivi raramente consultati una volta che si è persa memoria di un evento fatale che il tempo si è peritato di derubricare a trascurabile.
I “presidenticidi”
Il nostro John Flammang Schrank si può considerare una sorta di portabandiera della categoria “dimenticati” a cui il suo emulo postumo Thomas Matthew Crooks, il ventenne che ha sparato a Donald Trump, offre un quarto d’ora di celebrità ora che si cercano nel passato i precedenti e torna alla luce la miniera di episodi che pone gli Stati Uniti al vertice della classifica di omicidi e tentati omicidi del comandante in capo tra le democrazie del pianeta.
Una persistenza di “presidenticidi”, tutti perpetrati con l’uso di armi da fuoco, una sorta di marchio delle nazione nata sull’epica del Far West, della logica del fucile, della guerra civile tra fazioni inconciliabili. Così irresistibile la ricerca delle vie spicce contro leader non amati da provocare attacchi contro 14 dei 46 sedutisi nello studio Ovale, quattro con esiti fatali.
E se si pensa che il peggio alberghi nel passato remoto, fanno impressione però i sette degli ultimi nove presidenti finiti nel mirino senza per fortuna raggiungere lo scopo: merito della vigilanza fattasi più accurata. A cui aggiungere per sovraccarico i due candidati alla poltrona massima, uno ammazzato, Robert Kennedy nel 1968, e uno ferito George C. Wallace nel 1972. Una sequela penetrata nel profondo dell’immaginario tanto che non si contano i film di Hollywood a tema “uccidete il presidente” o “attacco alla Casa Bianca”.
John Flammang Schrank
Schrank, allora. Questo americano di origini tedesche il 14 ottobre del 1912 all’esterno del Gilpatrick hotel di Milwaukee premette il grilletto contro Theodore Roosevelt che tentava la terza di rielezione e, come Crooks, mancò l’obiettivo. Disse di essere stato spinto dal fantasma di William McKinley, un predecessore alla Casa Bianca, che gli indicò Roosevelt come il suo assassino chiedendogli di vendicarlo. Fu giudicato insano di mente e rinchiuso in un ospedale psichiatrico.
Per nulla pazzo era il capostipite dei presidenticidi, John Wilkes Booth, anzi era uno dei maggiori attori della sua epoca, acclamato dal pubblico, fervente sostenitore della Confederazione nella guerra di successione americana e dunque acerrimo oppositore di Abraham Lincoln.
Al per lui infelice esito del conflitto architettò un piano per rapire il presidente che non ebbe buon esito. E ripiegò sulla sua soppressione approfittando di un caso fortunato.
Seppe che il 14 aprile 1865, venerdì santo, la vittima designata avrebbe assistito allo spettacolo Our American Cousin al Ford Theatre di Washington. Conoscendo il proprietario della sala, riuscì a penetrare nel palco d’onore e a sparare alla nuca a Lincoln. Poi pronunciò la frase attribuita a Bruto dopo che ebbe pugnalato Cesare: «Sic semper tyrannis».
Charles Julius Guiteau era un avvocato dell'Illinois, repubblicano, convinto di essere stato deciso nell’elezione di James Garfield, tanto da fissare il prezzo della sua ricompensa: essere nominato console degli Stati Uniti a Parigi. La sua petulanza convinse l'entourage del capo dello stato a vietargli di avvicinarsi ai luoghi del potere. E si scatenò il desiderio di vendetta.
Acquistò una Webley Bulldog calibro 44, si esercitò maniacalmente al poligono, pedinò il responsabile dei suoi crucci fino a farlo diventare un dead man walking. L’occasione si presentò il 2 luglio 1881 alla stazione ferroviaria Baltimore e Potomac di Washington. Quattro colpi due a segno. Garfield morì dopo due mesi e mezzo di agonia, il killer condannato a morte e impiccato.
Sulla sedia elettrica concluse la sua vita terrena Leon Czolgosz, un anarchico di origini polacche. Le sue ultime parole prima delle scosse furono: «Ho ucciso il presidente perché era nemico della brava gente, i buoni lavoratori. Non mi dispiaccio per il mio crimine, mi dispiaccio di non aver visto mio padre». Il presidente era Wiliam McKinley, repubblicano, raggiunto da due colpi all’addome il 6 settembre 1901 mentre si trovava nel Tempio della Musica di Buffalo. Czolgosz aveva speso 4,50 dollari per acquistare quattro giorni prima la rivoltella Iver Johnson 8 millimetri con cui portare a termine il suo omicidio politico.
Lee Harvey Oswald
Il più famoso del gruppo, sia per la vicinanza del fatto sia per la statura della sua vittima è senza dubbio Lee Harvey Oswald. Anche quello che ha scatenato più tesi complottarde sui motivi per cui a Dallas il 24 novembre 1963 sparò dall’alto di un edificio verso l’auto scoperta di John Kennedy.
Sociopatico e narcisista da adolescente, riuscì a entrare nel corpo dei Marines senza familiarizzare con i commilitoni per le dichiarate simpatie comuniste, anche se queste non erano sfociate nell’iscrizione a un partito o a qualche associazione similare. Congedatosi, partì per l’Unione Sovietica dove chiese la cittadinanza che non gli fu concessa ma ottenne l’asilo politico dopo un mancato suicidio.
Affascinato, pare, dalla figura di Fidel Castro, si risolse all’omicidio dell’uomo della speranza e della nuova frontiera, colpevole dell’ostilità nei confronti di Cuba. Questo almeno per la verità ufficiale. Catturato fu a sua volta ucciso due giorni dopo nella centrale di polizia di Dallas da Jack Ruby.
Eliminazione di un testimone che poteva rivelare scomodi retroscena e svelare il nome dei mandanti? Il dubbio resiste ancora oggi, nonostante varie commissioni d’inchiesta e centinaia di migliaia di pagine prodotte.
Il tempo non è riuscito nemmeno a fugare del tutto le teorie alternative alla verità accertata sulla morte di Robert Kennedy, il fratello di John e candidato favorito, nel 1968, per la corsa alla Casa Bianca contro il repubblicano Richard Nixon (che poi vinse).
Per la giustizia non ci sono dubbi. Ad ammazzarlo fu Sirhan Sirhan, giordano di origine palestinese, a causa del sostegno di Kennedy a Israele nella guerra dei Sei Giorni del 1967. Nel suo diario è perfettamente descritta la lenta maturazione dell’idea del crimine. Eppure lasciano sospetti la distruzione di migliaia di foto e reperti dell’inchiesta, oltre al fatto che la pistola del mediorientale aveva otto colpi quando ne furono censiti sulla scena del delitto almeno tredici.
Forse basteranno pochi giorni per svelare i motivi reali che hanno indotto Thomas Matthew Crooks a mettere nel mirino Donald Trump. Gli elementi finora noti sono almeno incongruenti. Indossava la maglietta di un’associazione pro armi, figura nei registri pubblici come elettore repubblicano, ma risulta una sua donazione di 15 dollari a un progetto dei democratici. Anche l’America ha i suoi misteri.
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