- Nell’autunno del 2015 lo scrittore Gui Minhai scompare nel nulla. Nessuno lo rivedrà più fino al primo gennaio del 2016, quando il cinquantunenne compare in un filmato trasmesso dalla tv di stato cinese e confessa di essersi consegnato alla polizia di sua spontanea volontà, consumato dal rimorso per un omicidio stradale commesso da ubriaco molto tempo prima.
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Gui Minhai è semplicemente l’autore e l’editore di una serie di libretti scandalistici vietati in Cina che vanno a ruba tra i cinesi in visita a Hong Kong: titoli come Le otto amanti di Xi Jinping e La verità sul caso Bo Xilai, basati su illazioni e storie inventate di sana pianta, ma sufficienti a scatenare la rappresaglia del partito comunista cinese.
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«Non so chi abbia ordinato l’arresto di mio padre e credo che nessuno, a parte le persone direttamente coinvolte, possa sapere la verità», dice la figlia, Angela Gui. «Mio padre è un cittadino naturalizzato svedese che è stato condotto dalla Thailandia alla Cina illegalmente ed è in arresto da sei anni senza un giusto processo».
Il massimo splendore del Silver Beach Condominium risale a trent’anni fa, e da allora le mura di questo palazzo di 24 piani affacciato sul golfo della Thailandia hanno assistito a molti drammi caratteristici della zona, tra prostituzione a buon mercato, ricercati di tutti i continenti alla ricerca di passaporti falsi, qualche regolamento di conti e l’inevitabile cifra di infarti che colpiscono i pensionati finiti a svernare sulle spiagge di Pattaya. Ma fino al 15 ottobre del 2015, per quanto è concesso di sapere, nel grattacielo non si erano mai svolte operazioni dei servizi segreti di una potenza straniera.
La scomparsa di Gui Minhai
Alle 13.30 circa di quel giovedì, una giornata afosa di cielo coperto con una minaccia di pioggia incombente su tutta la costa, il cinquantunenne Gui Minhai rientra carico di buste della spesa verso il suo appartamento al diciassettesimo piano: ad aspettarlo c’è un uomo che nelle immagini delle telecamere di sorveglianza appare sulla trentina, corporatura media e aspetto anonimo come la polo a righe che indossa. Lo sconosciuto si è rivolto alla sorveglianza del palazzo in un thailandese stentato, ma quando Gui arriva i due si parlano in cinese mandarino.
Gui lascia la spesa al portiere chiedendogli di portarla in casa e si allontana con l’uomo dalla polo a righe a bordo della sua auto. Per quasi un mese nessuno entrerà più nell’appartamento del diciassettesimo piano, fino a quando quattro uomini non si presenteranno al Silver Beach con un biglietto firmato dal proprietario che li autorizza a prelevare alcuni dei suoi effetti personali, tra cui la bozza di un libro.
Nessuno rivedrà più Gui Minhai fino al primo gennaio del 2016, quando il cinquantunenne compare in un filmato trasmesso dalla tv di stato cinese e confessa di essersi consegnato alla polizia di sua spontanea volontà, consumato dal rimorso per un omicidio stradale commesso da ubriaco molto tempo prima.
Libri proibiti
«Non ho mai guardato per intero il “video di confessione”», racconta Angela Gui, che da sei anni combatte per conoscere la verità sulla sorte di suo padre. «Penso che guardare un video in cui viene estorta una confessione a qualcuno che ami sia una prova che non dovrebbe capitare a nessuno.
Molti esperti sostengono che una delle funzioni principali di questi filmati consista nell’instillare la paura in chi li guarda; ecco: io non voglio che questa paura si riversi su di me, quindi ho scelto di non guardarlo».
Nessuna prova concreta sul presunto omicidio stradale commesso da Gui è mai stata prodotta, quindi perché le forze di sicurezza cinesi si sarebbero spinte fino alla Thailandia pur di catturarlo e rinchiuderlo in carcere?
La risposta a questa domanda si trova al numero 531 di Lockhart Road a Hong Kong, sede della libreria Causeway Bay Books, è una storia di libri proibiti e lesa maestà che punta dritta fino al segretario del partito comunista cinese Xi Jinping, ed è intimamente legata alla ribellione che ha scosso la città poco più di un anno prima della scomparsa di Gui.
La rivolta
28 settembre 2014: centinaia di migliaia di hongkonghesi scendono in strada, occupano le arterie principali e paralizzano il traffico della metropoli. Hong Kong è la terza piazza finanziaria del mondo dopo New York e Londra, ma è anche stretta a Pechino da una complessa architettura politica riassunta nella formula «un paese-due sistemi»; da quando nel 1997 il Regno Unito ha restituito Hong Kong alla Cina, Pechino ha concesso alla metropoli di mantenere le sue specificità, tra cui la libertà di stampa, di associazione e di manifestazione del pensiero – che nella Cina autoritaria sono strettamente controllate – e, soprattutto, il legislative council, un miniparlamento locale eletto con un sistema semidemocratico, che a sua volta nomina il chief executive, massima autorità della città.
Ma adesso C.Y. Leung – l’esile, azzimato e sornione chief executive in carica da due anni – ha annunciato una riforma che di fatto sottopone i prossimi candidati all’approvazione preventiva di Pechino, sbarrando la strada al vasto fronte pandemocratico che vanta da sempre un forte numero di delegati nel miniparlamento di Hong Kong.
Protetti dagli ombrelli
Piove a dirotto in quei giorni a Hong Kong, mentre gli studenti di gruppi come Scholarism e della Hong Kong Federation of Students protestano a Central, ergendo barricate di fortuna davanti alla sede del governo e del parlamento locale.
La polizia tenta di sgomberare sparando gas lacrimogeni, i manifestanti si fanno scudo aprendo gli ombrelli per parare i proiettili, l’immagine diventa uno di quegli scatti che riassumono un momento storico ed ecco che sui media di tutto il mondo nasce la «rivoluzione degli ombrelli».
Leader adolescenti come Joshua Wong e Lester Shum incitano alla protesta non violenta finché la norma non sarà ritirata; genitori e nonni scendono in piazza a fianco degli studenti, sono indignati contro una forza di polizia che fino a qualche giorno prima era considerata la migliore di tutta l’Asia e adesso spara lacrimogeni sui ragazzini; tra gli applausi della folla la diciassettenne Agnes Chow legge un ultimatum in cui gli studenti chiedono le dimissioni del Chief Executive C.Y. Leung.
Le otto amanti
Nella ore piccole tra il 3 e il 4 ottobre la situazione precipita a Mong Kok, un quartiere di negozi popolari nel nordovest della città: gruppi di auto sgommano davanti alle barricate, dalle portiere gruppi di sconosciuti dal fare aggressivo – tutti tatuaggi, canottiere e occhiali a specchio alle tre del mattino – urlano minacce contro i manifestanti. «Sono uomini delle triadi», dice Avery Ng, numero due della Lega dei socialdemocratici.
Colpiscono a ondate gli studenti che si allontanano dal presidio per andare a fare pipì e comprare vivande nei negozietti aperti tutta la notte, li trascinano nei vicoli lontani dai neon e li picchiano con mazze e bastoni, ma i feriti ormai sanno che non devono andare in ospedale perché rischiano l’identificazione. Secondo Avery e altri esponenti del suo partito, il governo, il dipartimento di polizia e le organizzazioni mafiose hanno instaurato un patto silenzioso per stroncare le proteste.
Cosa c’entra con tutto questo Gui Minhai? Non è un leader politico come Avery Ng o Lester Shum, non pronuncia ultimatum come Agnes Chow, non ha il carisma di un simbolo delle proteste come Joshua Wong.
Gui Minhai è semplicemente l’autore e l’editore di una serie di libretti scandalistici vietati in Cina che vanno a ruba tra i cinesi in visita a Hong Kong: titoli come Le otto amanti di Xi Jinping e La verità sul caso Bo Xilai, basati su illazioni e storie inventate di sana pianta, ma sufficienti a scatenare la rappresaglia del partito comunista cinese.
Spariti nel nulla
«Non so chi abbia ordinato l’arresto di mio padre e credo che nessuno, a parte le persone direttamente coinvolte, possa sapere la verità», dice Angela Gui. «Non penso neanche che abbia importanza sapere se un singolo libro abbia fatto da detonatore a tutta la vicenda, quello che importa è che mio padre è un cittadino naturalizzato svedese, che è stato condotto dalla Thailandia alla Cina illegalmente ed è in arresto da sei anni senza un giusto processo, senza una difesa, e senza alcun contatto col governo svedese o con la sua famiglia, solo perché pubblicava e vendeva libri che al governo cinese non piacevano».
A distanza di sei anni il caso Gui Minhai segna il punto di non ritorno, il momento preciso oltre il quale le libertà di Hong Kong precipitano su un piano inclinato: arrestare pericolosi leader delle proteste come Joshua Wong e Avery Ng con accuse pretestuose rientra nel modus operandi degli apparati cinesi; inviare una squadra all’estero per catturare un cittadino straniero colpevole di gossip indica nuovi livelli di arbitrarietà e completo sprezzo del diritto internazionale. Nei mesi successivi alla scomparsa di Gui altri cinque librai e autori legati alla Causeway Books spariscono uno dopo l’altro.
La «rivoluzione degli ombrelli» si trasforma, il confronto con Pechino si inasprisce, la polizia si abbandona a repressioni sempre più violente, mentre i tribunali si riempiono di dissidenti di ogni tendenza politica. Nel giugno 2016, logorato dagli insuccessi nel contenimento delle proteste, il chief executive C.Y. Leung si ritira adducendo problemi di salute, e lascia il posto alla sua vice Carrie Lam.
Carri Lam sarà la vera artefice della caduta di Hong Kong.
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