Il prossimo presidente argentino si troverà a governare un paese in recessione, senza accesso ai mercati, con una moneta senza valore e un debito di 400 miliardi di dollari, che poco dopo il suo insediamento registrerà una caduta annuale del Pil del 3 per cento.
Tra due settimane l’Argentina sceglierà il prossimo presidente. Appena insediato troverà un paese in recessione, senza acceso ai mercati, con una moneta senza valore e un debito di 400 miliardi di dollari. Ma soprattutto troverà uno paese sull’orlo dell’iperinflazione.
Il 22 ottobre si terrà in Argentina un’elezione apertissima tra tre schieramenti. Da un lato la coalizione peronista, che ha governato il paese dal 2003 al 2015 e poi nuovamente dal 2019 fino ad oggi, guidata da Sergio Massa.
Dall’altro la coalizione di centro-destra Juntos por el Cambio, già al governo dal 2015 al 2019, guidata da Patricia Bullrich.
E infine il partito personale di Javier Milei, pseudoeconomista salito alla ribalta nazionale grazie alle apparizioni televisive degli ultimi tre anni. L’eventuale ballottaggio si terrà il 19 novembre nel caso in cui nessun candidato dovesse ottenere il 45 per cento dei voti o il 40 per cento con una differenza di almeno 10 punti percentuali rispetto al secondo classificato.
Il prossimo presidente argentino si insedierà poi il 10 dicembre. Pochi giorni dopo il paese registrerà una caduta annuale del Pil del 3 per cento. Un dato dovuto solo in parte alla straordinaria siccità che ha dimezzato il raccolto agricolo.
In Uruguay, dall’altro lato del Rio de la Plata, il Pil crescerà del 1,5 per cento nonostante la siccità. Il problema è strutturale: da anni l’Argentina cresce meno dei suoi vicini. Il presidente dovrà fare i conti anche con una gravissima crisi sociale. Secondo l’istituto nazionale di statistica, il tasso di povertà ha raggiunto il 40 per cento. Percentuale che sale al 54 per cento tra i minori.
Sull’orlo della catastrofe
La situazione finanziaria è disastrosa. Preoccupa sia il deficit fiscale che la forma in cui il paese lo finanzia perché l’Argentina non ha la fiducia dei mercati internazionali. Lo spread tra i titoli del tesoro argentini emessi in dollari e quelli degli Stati Uniti è di 2400 punti (in Uruguay è 100, in Brasile 200). Nel 2018, per rilanciare l’economia, l’Argentina ottenne un prestito di 44 miliardi al Fondo Monetario Internazionale e divenne così il principale debitore dell’istituzione. Ma, complice la pandemia, il cambio di governo e la siccità, il paese non ha mai onorato gli impegni fiscali con il Fondo.
Impossibilitata a finanziarsi sui mercati e reticente a controllare la spesa pubblica, l’Argentina ha dovuto trovare altre soluzioni per alleggerire la pressione finanziaria. Prima ristrutturando debito con i privati e con il Fondo. Poi attraverso un prestito in yuan per pagare una rata del prestito del Fmi. Nel frattempo, il paese continua finanziare il deficit fiscale attraverso la banca centrale. Non sorprende quindi la cronicità dell’inflazione. È dal 2010 che l’inflazione annuale registra un numero a doppia cifra. Nel 2022 si è fermata al 95 per cento, mentre nel 2023 dovrebbe sfiorare il 200 per cento. Secondo Moody’s arriverà al 350 per cento nel 2024.
Il ruolo della politica
Ad agosto, all’indomani del voto delle elezioni primarie, il governo è stato costretto a svalutare il peso del 18 per cento. La distorsione cambiaria argentina è tale che da anni, nonostante le restrizioni cambiarie, il prezzo di riferimento del dollaro è il doppio rispetto a quello ufficiale fissato dalla banca centrale. Ad oggi se un argentino volesse cambiare i suoi pesos in dollari per proteggersi dall’inflazione potrebbe farlo solo al tasso di cambio del mercato parallelo (800 pesos) e non a quello ufficiale (365 pesos).
A causa della svalutazione post-elezioni primarie, l’inflazione registrata nel solo mese di agosto è stata del 12,4 per cento. Si registrerà un dato simile pure per il mese di settembre. La situazione è talmente disastrosa che il ministro dell’economia Sergio Massa, nonché candidato presidente, ha iniziato a comunicare il dato dell’inflazione settimanale (2 per cento in media).
Come se non bastasse, a settembre il tribunale di New York ha condannato l’Argentina al risarcimento di 16 miliardi di dollari per la nazionalizzazione della compagnia petrolifera YPF decisa da Cristina Kirchner nel 2012.
Il dramma finale è completato dalla politica. Nonostante il paese sia al bordo dell’abisso, il governo peronista cerca di salvarsi promettendo, tra le altre cose, la virtuale eliminazione dell’imposta sul reddito. È una proposta fiscalmente regressiva appoggiata anche dal candidato Javier Milei che spera nel caos per arrivare alla presidenza. Massa e Milei si sono così accordati per alzare la no tax area a 1.7 milioni di pesos (4600 euro al cambio ufficiale, 2100 al cambio parallelo), un valore 15 volte superiore rispetto al salario minimo e che porterebbe il numero di contribuenti a poco meno di 100mila.
La scelta è frutto di un calcolo politico più che economico. Il governo spera di riuscire ad attirare voti e confida che, con un’inflazione che cammina verso il 200 per cento, il valore reale del limite scenderà presto. Poco importa se nei prossimi mesi l’ulteriore ammanco generato nelle finanze pubbliche, e il conseguente finanziamento monetario che ne deriverà, porti l’Argentina a un passo dall’iperinflazione. Sarà un problema del prossimo governo.
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