Alla fine Bergoglio si è scusato per le sue parole. Quello del papa tuttavia non è un mero incidente comunicativo, ma la prova che il papa non può procedere fino in fondo sulla strada delle riforme e del superamento del clericalismo. Emerge anche il tema di un pontefice le cui difficoltà a governare la chiesa universale crescono in modo sempre più evidente con l’avanzare dell’età
Alla fine sono arrivate le scuse: Francesco, attraverso un comunicato diffuso dalla Sala stampa vaticana, si è scusato per quanto detto nei giorni scorsi a proposito della «frociaggine» nei seminari.
«Papa Francesco – recita il testo diffuso alla stampa – è al corrente degli articoli usciti di recente circa una conversazione, a porte chiuse, con i vescovi della Cei. Come ha avuto modo di affermare in più occasioni, “Nella Chiesa c’è spazio per tutti, per tutti! Nessuno è inutile, nessuno è superfluo, c’è spazio per tutti. Così come siamo, tutti”. Il Papa non ha mai inteso offendere o esprimersi in termini omofobi, e rivolge le sue scuse a coloro che si sono sentiti offesi per l’uso di un termine, riferito da altri».
Scuse formali, con le quali in Vaticano da una parte si ammette la gravità dell’accaduto, dall’altra però ci si limita al minimo sindacale, ribadendo il magistero del papa. Forse, in questa circostanza, sarebbe stato necessario un intervento di persona di Francesco per chiarire il senso delle sue affermazioni.
Se, d’altro canto, come stile del pontificato, papa Francesco ha scelto fin dal principio l’immediatezza, cioè un linguaggio diretto e semplice, quanto accaduto all’assemblea generale della Cei in Vaticano non si può dire rientri in queste categorie.
Il termine utilizzato dal papa, «frociaggine», per indicare un eccesso di candidati omosessuali al sacerdozio nei seminari italiani e quindi per ribadire che questi ultimi vanno respinti (e su questo punto non c’è alcuna smentita), è infatti solo una volgarità che avrebbe provocato una sorta di messa all’indice morale fosse stata pronunciata da qualsiasi altro personaggio pubblico.
Non che l’uscita del papa non sia stata stigmatizzata da più parti, ma, in effetti, c’è ancora una certa resistenza a guardare le cose per quello che sono quando si tratta del vescovo di Roma. In primo luogo va detto che, proprio in quanto espressione gergale, va esclusa l’ipotesi che il pontefice non conoscesse bene il significato della parola.
Anzi, proprio dal contesto, è chiaro che Francesco sapeva quello che diceva, e il comunicato vaticano in tal senso appare come una conferma.
A porte chiuse
Ma cosa ci dice del papa e del suo magistero, tutto questo? Intanto c’è un problema di età che non può essere eluso: il capo della chiesa cattolica è certamente molto anziano, 87 anni compiuti, e per quanto come lui stesso abbia ripetuto più volte che non si governa con le ginocchia, la consapevolezza delle proprie parole e dei propri atti, può indebolirsi.
In sintesi, se è del tutto improbabile immaginare un Bergoglio che usa parole di cui non conosce l’effettivo significato, è lecito avanzare qualche dubbio sulla capacità di valutare l’opportunità di esprimersi con espressioni che desterebbero qualche disappunto anche in un bar sport il lunedì mattina.
Il metodo scelto dal papa pure merita una certa attenzione. Intanto, va sottolineato, come almeno fino alle 12 del 28 maggio, non vi era stata alcuna reazione da parte vaticana. Il silenzio ha circondato sacri palazzi per lunghe ore come una nebbia lugubre, dove prevaleva il senso di una disfatta mediatica con pochi precedenti.
Sì, perché l’incidente mostrava una volta di più come il pontefice decidendo di non avvalersi nemmeno in età così avanzata dei collaboratori e degli uffici vaticani, sceglieva di fatto di mettere in difficoltà se stesso e la chiesa, in un corto circuito che faceva assomigliare Francesco a un Vannacci qualunque seduto sul Soglio di Pietro. Le brevi e inevitabili scuse, in un simile contesto non influivano più di tanto sulle cose.
Il catechismo non cambia
Inoltre c’è da considerare il merito delle affermazioni del pontefice. Rispetto alla questione omosessuale, infatti, esistono almeno due piani di lettura nel pontificato di Francesco: uno pastorale, esterno alla chiesa, e uno interno, rivolto al clero, alla vita interna del corpo ecclesiale.
Quasi una doppia morale? In un certo senso, anche se è opportuno leggerne le motivazioni. Francesco, fin dal principio, ha cercato di costruire ponti fra il mondo lgbtq+ e la chiesa; di questo tentativo fa parte il celebre «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?» che scompaginò l’odio reciproco fra mondo omosessuale e gerarchie ecclesiastiche.
Per questo pure, ha dato man forte e sostegno pubblico a quei religiosi come il gesuita James Martin e suor Jeannine Gramick, entrambi americani, che da molti anni si battono per una piena inclusione delle persone lgbtq+ dentro la Chiesa.
Da ultimo poi, con il documento Fiducia supplicans, ha permesso la benedizione degli omosessuali che vivono in coppia. Tuttavia, attenzione, il papa non ha poi voluto mettere mano al catechismo laddove si definisce l’omosessualità come un fatto che «si manifesta in forme molto varie lungo i secoli e nelle differenti culture. La sua genesi psichica rimane in gran parte inspiegabile. Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati». Amen.
Aperture e riforme mancate
Insomma, Francesco, da una parte apre realmente, anche con incontri personali testimoniando una capacità di accoglienza sentita e vissuta, dall’altra però non si mostra disponibile a cambiare nel concreto la legge della chiesa in materia, cosa che dovrebbe costituire il naturale proseguimento della strada della misericordia intrapresa dal pontefice.
Allo stesso tempo, il problema dei seminari, posto tanto maldestramente da Francesco, non può che risolversi attraverso una serie di riforme che pongano fine allo strapotere clericale nella chiesa, aprendo per davvero a ruoli di responsabilità anche sacramentale per i laici, uomini e donne, perché proprio nel clericalismo si annida il tumore di una sessualità malata, repressa, frutto di ricatti e di instabilità affettive.
Per altro, ormai da anni, la chiesa soffre di una crisi delle vocazioni che dovrebbe accelerare i mutamenti. Invece, come spesso avviene, la paura e i timori di perdere qualche privilegio prevalgono su tutto. Così anche papa Francesco si è fermato sull’orlo vertiginoso del cambiamento, scegliendo, perlomeno fino ad oggi, lo status quo al rischio di mettere in discussione assetti di potere consolidati.
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