Secondo l’Onu questo numero è destinato ad aumentare: è previsto che entro il 2030 saremo oltre otto miliardi e mezzo e, nel successivo ventennio, raggiungeremo quasi quota 10 miliardi. Per evitare di esaurire le risorse dobbiamo affidarci all’ingegno
Da oggi, 15 novembre 2022, ci sono otto miliardi di persone che respirano, camminano, mangiano, parlano, si riproducono, insomma vivono sulla Terra. Secondo le stime delle Nazioni Unite l’umanità raggiungerà questo traguardo dopo una corsa lunga millenni e che ha avuto il suo sprint finale nell’ultimo settantennio.
Sempre secondo l’Onu questo numero è destinato ad aumentare. L’organizzazione internazionale, infatti, prevede che entro il 2030 saremo oltre otto miliardi e mezzo e, nel successivo ventennio, raggiungeremo quasi quota 10 miliardi (per la precisione saremo 9,687 miliardi). Poi nel 2100, quando la popolazione sarà arrivata a 10,9 miliardi, la crescita si arresterà e in numero delle persone sulla Terra inizierà a decrescere.
Distribuzione geografica
La crescita non avverrà in modo omogeneo, al contrario alcuni continenti accelereranno più di altri. La popolazione aumenterà vertiginosamente in Africa e Asia, tanto che, stima l’Onu, entro fine secolo otto persone su 10 nel mondo vivranno in uno di questi due continenti. In particolare, la popolazione africana, che ora si aggira su 1,3 miliardi, già nel 2050 avrà ampiamente oltrepassato i tre miliardi di unità. Gli asiatici passeranno dagli attuali 4,5 miliardi (circa) agli oltre 5 miliardi.
È interessante notare, invece, che in Europa e Nord America la popolazione rimarrà pressoché stabile, anzi, a voler essere precisi, dopo aver raggiunto un picco nel 2030 (1,129 miliardi), il numero di persone su questi due continenti si ridurrà (nel 2050 saranno 1,125 miliardi).
Demografia e sovrappopolazione
La crescita nel tempo popolazione ha portato scienziati, come Thomas Malthus, a teorizzare che prima o poi si sarebbe giunti a dover affrontare il problema della sovrappopolazione. Questa concezione era così radicata che fino a poco tempo fa non si sarebbe mai potuto pensare che la crescita, arrivati a un certo punto della storia, non solo avrebbe potuto rallentare, ma addirittura invertire la rotta.
Invece, questo è esattamente ciò che è avvenuto: dal 1963, infatti, anno in cui raggiunse un picco del 2,21 per cento, il tasso di crescita della popolazione mondiale ha cominciato a diminuire. Tra il 2010 e il 2015 la popolazione è cresciuta dell’1,18 per cento, cioè la metà rispetto quanto successo nel 1963. E si stima che entro la fine del secolo la crescita si fermerà allo 0,13 per cento.
Popolazione ed economia
Nel 2006, William Easterly ha pubblicato un libro, Lo sviluppo inafferrabile, nel quale tenta di spiegare come sia stata possibile questa inversione di tendenza. Secondo lui, la diminuzione del tasso di natalità è strettamente correlato all’aumento dell’aspettativa di vita alla nascita, due fattori influenzati entrambi da un terzo: lo sviluppo economico.
La cura dei bambini richiede un elevato dispendio di tempo ed energie che vengono parallelamente sottratti al lavoro. Genitori più ricchi perché occupati in lavori più remunerativi, dunque, tendono a fare meno figli rispetto a genitori più poveri e svantaggiati da condizioni di lavoro ostili e proprio per questo più inclini a dedicare il proprio tempo alla cura dei figli. Inoltre, condizioni di vita migliori, anch’esse correlate al benessere economico, riducono i tassi di mortalità.
A confortare questa teoria ci sono i dati. Secondo quelli forniti dall’Onu, tra il 2005 e il 2010 il Niger e la Guinea Bissau erano i due paesi con i maggiori tassi di fecondità al mondo, ma erano anche tra i paesi con i maggiori tassi di mortalità infantile.
Lo sviluppo tecnologico
Che condizioni di vita migliori e benessere economico siano deterrenti alla crescita esponenziale della popolazione è dimostrato anche dai dati più recenti, cui abbiamo fatto accenno sopra e che qui è il caso di richiamare. In Europa e Nord America, due continenti sviluppati, la crescita della popolazione è via via diminuita e si stima che addirittura inizierà a decrescere.
La stessa sorte potrebbe toccare anche ai paesi – e, per estensione, ai continenti – in via di sviluppo. Se questo, dunque, potrebbe arginare la sovrappopolazione e, con lei, i rischi di una sempre maggiore carenza di risorse, d’altro canto va rilevato che lo sviluppo economico porta con sé i rischi derivanti dall’impatto ambientale. Non è, infatti, solo la sovrappopolazione ad avere effetti negativi sul pianeta, lo è soprattutto l’intensità con cui le persone impattano sull’ambiente. È un dilemma da cui sembra difficile, se non impossibile, districarsi. Ecco dunque che entra in gioco un altro fattore: lo sviluppo tecnologico.
In un articolo apparso sul New York Times nel 2013 dal titolo La sovrappopolazione non è il problema, Erle C. Ellis critica la concezione secondo cui prima o poi l’umanità dovrà fare i conti con la finitezza del pianeta. Lo scienziato ambientale con un’analisi storica dimostra che fin dalla comparsa dei primi uomini sulla terra questi hanno iniziato ad interagire con l’ambiente trasformandolo e a creare tecnologie che potessero sostenere lo sviluppo di ecosistemi con una produttività maggiore rispetto a quella offerta dalla natura.
Inventiva, spirito di adattamento e tecnologia sono stati indispensabili all’uomo per aumentare la produttività degli ecosistemi naturali. Già nel secolo scorso l’economista danese Ester Boserup, che Ellis cita, sosteneva che «la necessità è la madre dell’invenzione». E, prosegue lo scienziato, il sostentamento umano dipende proprio dalla capacità dei nostri sistemi sociali e dalle nostre tecnologie molto più che da ogni limite ambientale. All’epoca dei cacciatori-raccoglitori la Terra avrebbe sostenuto, probabilmente, al massimo 100 milioni di persone, ora siamo otto miliardi, scrive.
La carne artificiale
In definitiva, le tecnologie, se pensate e adoperate nel rispetto dell’ambiente e non sfruttando l’ambiente, possono rivelarsi un antidoto alla finitezza delle risorse. Se pensiamo all’impatto ambientale degli allevamenti intensivi, la prima soluzione che viene in mente per risolvere il problema è quella di diminuire il consumo di carne. Ma non è l’unica.
Molte start up stanno lavorando su progetti che permettano di creare carne artificiale. In Italia, il bioingegnere Giuseppe Scionti è riuscito a mettere a punto un macchinario capace di ricreare la struttura fibrosa del muscolo animale. Detto altrimenti, crea “in provetta” un pezzo di carne molto simile a quello che può essere una bistecca o un petto di pollo.
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