Dopo il sì per fermare le trivellazioni nella foresta, l’esecutivo ha fatto finta di nulla. Le urne sancivano che lasciare le risorse sotto terra dà più benefici che estrarle
Il 20 agosto 2023 il mondo intero aveva vinto un referendum importantissimo: simbolicamente e concretamente. In Ecuador, i cittadini erano stati chiamati a decidere se continuare o fermare l’estrazione di petrolio in una zona protetta del Parco nazionale Yasuní, nella Foresta amazzonica ecuadoriana.
Era stato un referendum proposto dal basso, che aveva visto la luce grazie all’impegno, nei mesi (e anni) precedenti, di comunità indigene, attivisti ambientali e accademici riuniti nel collettivo YASunidos. Una campagna di comunicazione e sensibilizzazione capillare e attenta aveva portato a un risultato epocale: il popolo si era espresso nettamente a favore dello stop alle trivelle, con il 58,9 per cento dei voti. Per la prima volta un paese o almeno i suoi abitanti si erano detti: esiste una risorsa sul nostro territorio, ma il vantaggio ambientale di lasciarla sotto terra è maggiore del guadagno economico che avremmo sfruttandola. Una rivoluzione di pensiero e priorità. Quella di cui abbiamo bisogno per affrontare la crisi climatica.
Eppure, a quasi otto mesi dalla conferma dell’esito del referendum, sembra che niente sia stato fatto per rispettare il voto popolare. La Corte aveva stabilito allora un piano della durata di un anno per la dismissione progressiva degli impianti, con l’obiettivo di chiudere completamente i rubinetti entro agosto 2024.
«Purtroppo le dichiarazioni del presidente e dei suoi ministri, insieme ai documenti dell’azienda petrolifera statale che riportano le quantità di petrolio estratto ogni giorno, dimostrano che lo sfruttamento petrolifero del parco Yasuní sta proseguendo se non aumentando. In sei mesi non c’è stato alcun segnale che ci si stia preparando a uno smantellamento delle strutture», racconta a Domani Pedro Bermeo Guarderas, membro del collettivo YASunidos.
Il referendum si è svolto in occasione delle elezioni presidenziali in Ecuador. L’attuale presidente, Daniel Naboa, un conservatore trentacinquenne, figlio di un ricchissimo esportatore di banane, ha vinto al secondo turno e si è insediato a novembre. Da allora ha concentrato la sua attenzione sulla situazione disastrosa della violenza che ormai da anni imperversa nel paese. Schiacciato fra Colombia e Perù, i due maggiori produttori di cocaina, l’Ecuador ne è diventato infatti il maggior esportatore, trasformandosi in teatro di sanguinose lotte fra narcotrafficanti. Gli omicidi sono aumentati di otto volte in sei anni, a giugno era stato assassinato un candidato politico.
«Siamo in guerra»
Secondo Daniel Naboa, sarebbe necessario rinviare di almeno due anni (ma potenzialmente anche cinque) la dismissione degli impianti nel Parco Yasuní: dall’estrazione di petrolio infatti si ricaverebbero i fondi necessari alla lotta al narcotraffico. «Siamo in guerra», avrebbe detto a una televisione locale in seguito ad alcuni gravi disordini di piazza. E per finanziare questa guerra ci vogliono miliardi di dollari, esattamente quelli che si ricaverebbero grazie alle trivellazioni.
«La violenza in Ecuador esiste da molto prima del referendum, non è una novità. Ora il presidente gode di molta popolarità, ma la verità è che ha solo riempito di militari le strade. E, nonostante la violenza crescente, i sondaggi dicono che se si rivotasse oggi il referendum passerebbe di nuovo, con il 60 per cento dei voti», spiega Bermeo.
Il cosiddetto “blocco 42”, o Itt (Ishipingo-Tambococha-Tiputini), è l’area concessa all’industria petrolifera. Si trova appunto nel Parco Yasunì, nell’est del Paese, e ogni ettaro «contiene più biodiversità di tutto il Nord America». Soprattutto, ci abitano popoli indigeni in isolamento volontario, quelli insomma che non hanno nessuna voglia di avere a che fare con noi: sono i Tagaeri e Taromenane. Anche i territori degli Waorani si trovano lì. E, come si legge nel sito di YASunidos, «non esiste estrazione pulita»: ogni giorno c’è una fuoriuscita di petrolio e ogni giorno si rischia di intossicare gli organismi e le popolazioni che abitano la foresta.
Già nel 2007 il presidente Rafael Correa aveva chiesto alla comunità internazionale 3,6 miliardi di indennizzo per lasciare sotto terra il petrolio del Parco, ma si riuscirono a raccogliere solo pochi milioni. Il tentativo fallì. Da allora le cose si sono mosse lentamente.
Alcune comunità indigene sono state spinte ad andarsene in cambio di promesse di infrastrutture sanitarie e denaro, e solo recentemente erano state messe in moto 12 piattaforme da cui si estrae un petrolio particolarmente denso e inquinante. Ma il 20 agosto la popolazione ha espresso la propria netta contrarietà allo sfruttamento del blocco 42.
Petizione
In queste settimane gli YASunidos stanno facendo circolare una petizione che ha quasi raggiunto le 500mila firme: vale come «una forma di denuncia dell’inadempienza del governo» di fronte alla comunità internazionale. «La legge stabilisce che i referendum sono di obbligatorio e immediato compimento. Una possibile inadempienza sarebbe grave come è grave una dittatura. Vorrebbe dire tradire il mandato popolare. Qui sono in gioco elementi di democrazia, giustizia e costituzionalità», conclude Bermeo.
La battaglia per il Parco Yasunì ha un forte valore dentro e fuori dall’Ecuador. È essenziale prima di tutto per chi abita quelle terre e per quelle terre stesse. Ed è cruciale per noi tutti in termini di impatto ambientale. In un articolo uscito su Nature nel 2021, Dan Welsby dell’University College London, scriveva che «per avere il 50 per cento di possibilità di non superare gli 1,5°C di riscaldamento climatico, entro il 2050 quasi il 60 per cento del petrolio e del gas metano fossile e il 90 per cento del carbone» dovranno restare nel sottosuolo.
Proprio nei prossimi giorni, la mattina del 4 marzo, l’economista e promotore del collettivo YASunidos Carlos Larrea terrà una lectio magistralis all’Università di Padova dal titolo “Lasciare il petrolio sottoterra: verso un trattato di non proliferazione”, presso il dipartimento di Ingegneria civile. Ed è proprio di questo pensiero antico e rivoluzionario, capace di lasciare le risorse al proprio posto, di prendersi cura della terra anziché consumarla, che abbiamo bisogno.
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