Un voto che per l’ennesima volta non è stato provocato dalla caduta del governo, ma da meri calcoli politici che servono il solo obiettivo di rafforzare il regime di Vucic in Serbia
Tutto come da copione. La notte elettorale in Serbia non ha portato alcuna reale svolta, confermando i progressisti (Sns) del presidente serbo Aleksandar Vucic al comando del paese. La creatura dell’uomo forte della Serbia, progressista nel nome, ma conservatrice e nazionalista nella sostanza, ha incassato, a scrutinio quasi ultimato, il 46,84 per cento dei voti, seguita a distanza dalla coalizione liberal e proeuropeista “Serbia contro la violenza”, ferma al 23,38 per cento.
Risultato deludente per la frangia più filorussa della coalizione al governo, il partito socialista serbo (Sps), che si aggiudica il 6,59 per cento dei consensi. A urne chiuse, il leader dei socialisti, Ivica Dacic, ha ventilato l’ipotesi di rassegnare le dimissioni dalla guida del partito che fu di Slobodan Milosevic, protagonista delle guerre nei Balcani degli anni Novanta. Altre due formazioni, schierate all'opposizione, superano per ora la soglia di sbarramento per l'ingresso nel Parlamento monocamerale, la coalizione filomonarchica Nada con il 5,02 per cento e i populisti di destra “Noi, voce del popolo” con il 4,68 per cento dei voti.
Naviga nell’incertezza il voto a Belgrado, l’unica reale posta in gioco della tornata elettorale che ha interessato anche 65 comuni. Il fronte delle opposizioni, che ha mancato di un soffio la conquista della capitale alle scorse elezioni, ha contestato i risultati che vedono i progressisti di Vucic in vantaggio di pochi punti percentuali sulla coalizione “Serbia contro la violenza”, e hanno chiesto la ripetizione del voto, denunciando diffuse irregolarità nel voto. Secondo il leader d’opposizione, Miroslav Aleksić, nei giorni che hanno preceduto il voto sono state rilasciate circa 40mila nuove carte d'identità ai non residenti.
Emblema dei brogli elettorali è quanto accaduto alla Stark Arena di Belgrado, trasformata per l’occasione in un grande seggio per cittadini provenienti, in bus e auto private, dalla Republika Srpska, una delle due entità, a maggioranza serba, della Bosnia-Erzegovina. Accuse respinte dalla premier Ana Brnabic, che ha definito queste «illazioni» come «una stupidità di proporzioni inaudite». Ma l’opposizione, che ha indetto delle proteste all’indomani del voto, è decisa a veder chiaro in questa vicenda. La capitale era il banco di prova da cui ci si aspettava la certificazione della crisi di popolarità di Vucic, un primo, importante segnale del malcontento strisciante verso la cattura dello stato operata dal presidente serbo e dal suo entourage, al potere dal 2012, con il controllo di media, economia, giustizia.
Un malcontento esploso davanti alle sparatorie di massa del maggio scorso, di cui una avvenuta in una scuola elementare di Belgrado, che hanno provocato 19 morti. Per una parte dell’opinione pubblica, le sparatorie non sono venute dal nulla, ma sono figlie di una “cultura della violenza” alimentata dai partiti al governo e instillata quotidianamente sui media e persino nelle scuole. L’ondata di indignazione, che ha scosso il paese, ha portato per mesi migliaia di manifestanti nelle piazze, non solo nella capitale. E proprio sull’onda lunga di queste proteste è nato il principale cartello elettorale delle opposizioni, Serbia contro la violenza, che puntava a scardinare il regime di Vucic partendo da Belgrado.
Gli episodi contestati, tra pressioni indebite e mercanteggiamento di voti, non sono però circoscritti alla capitale. Indicativo del clima in cui si è svolto il voto, l’attacco avvenuto nel nord della Serbia contro gli osservatori elettorali del Centro per la ricerca, la trasparenza e la responsabilità (Crta) che ha portato all’arresto di un uomo. Incurante delle critiche, il presidente serbo ha rivendicato una «vittoria assoluta» sugli avversari, per poi fare riferimento al «periodo complesso» che va delineandosi per la Serbia alle prese con «i difficili negoziati con Pristina: continueremo a mantenere il Kosovo come parte del nostro territorio». Una promessa che contraddice ancora una volta l’accordo, mediato da Ue e Usa lo scorso marzo, per la normalizzazione delle relazioni con il Kosovo, artificio diplomatico dietro cui si cela un riconoscimento de facto dell’ex provincia serba, dichiaratasi indipendente nel 2008, da parte di Belgrado.
Ma è soprattutto una promessa che rivela la logica sottostante alla mossa di Vucic di indire le elezioni a meno di due anni dalle ultime. Un voto che per l’ennesima volta non è stato provocato dalla caduta del governo, ma da meri calcoli politici che servono il solo obiettivo di rafforzare il regime di Vucic in Serbia e di procrastinare un’eventuale intesa sul Kosovo in attesa di condizioni più favorevoli sul piano internazionale. Dettate soprattutto dalle elezioni europee di giugno, che potrebbero spostare l’asse dell’Ue più a destra, e dalle presidenziali degli Stati Uniti a novembre, con un eventuale ritorno di Donald Trump alla guida del Paese.
Difficile che la mossa di Vucic fosse un azzardo, sebbene la Serbia che si è recata alle urne sia un paese profondamente polarizzato, frustrato dalla morsa autoritaria impressa da Vucic e piegato da un’inflazione galoppante. Questioni queste cui il regime ha risposto con una feroce campagna identitaria che mira a far apparire l’establishment al potere come il solo difensore degli interessi della Serbia nei Balcani e a livello internazionale. Una strategia ben rodata, rivelatasi ancora una volta vincente.
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