Da tre settimane Shahar Snorman e la moglie sono tornati a vivere a Kfar Aza, fra le abitazioni dei vicini trucidati da Hamas il 7 ottobre. Il villaggio fantasma è stato evacuato, ma nessuno ha il coraggio di obiettare alla loro scelta. «Spero che si trovi un modo per vivere in pace: è l'unica ragione per cui vivo qui», dice il 62 enne
Shahar Snorman, 62 anni, è l’unico civile che attualmente risiede a Kfar Aza, un kibbutz di 950 persone fra le località più colpite dall’attacco palestinese del 7 ottobre.
Lo trovi seduto sulla sua seggiola da campeggio in veranda insieme alla moglie Ayelet, entrambi decisi a ignorare le disposizioni dell’esercito che ha decretato il villaggio “zona militare chiusa”. Nessuno ha il coraggio di obiettare alla loro scelta. Tutti gli altri membri della comunità sono morti, rapiti, o sfollati in zone più sicure del paese.
«Credo che per vivere in Israele ci voglia un buon vicinato, e per costruirlo devi fare tutto il possibile per dare all’altra parte una vita soddisfacente, perché solo allora avrà una ragione per vivere», dice Snorman che, ancora incapace di elaborare il trauma del massacro di oltre 60 vicini e dal rapimento di altri 19 pochi mesi fa.
«Non so come ci si possa arrivare. Ma noi che uccidiamo loro, loro che uccidono noi, tutto il tempo, non è un buon modo per vivere. Spero che si trovi un modo per vivere in pace, è l'unica ragione per cui vivo qui. Se non avessi questa speranza me ne andrei a vivere in Irlanda, in Scozia, o nel nord della Grecia».
La casetta monofamiliare, circondata da piante e alberi da frutto, è a poche decine di metri dalla frontiera con la Striscia. Si vedono gli elicotteri Apache in cielo, si sentono i botti degli attacchi dell’artiglieria israeliana e il ronzio di droni e jet militari che continuano, ormai da quasi 90 giorni, a compiere massacri nella Striscia.
I segni sulle case
Shahar spera di non rimanere a lungo da solo, fra i rumori della guerra e circondato dalle case bruciate e da quelle segnate con la vernice spray – se il simbolo è un cerchio con al centro un punto, vuol dire che dentro è stato rinvenuto il corpo di un cittadino israeliano.
«Vorrei che tutti tornassero. Alcuni mi dicono che sono pronti a farlo, altri che no. Qualcuno dice che non tornerà mai e altri ancora che lo faranno solo quando la situazione lo consentirà. Noi vecchi, senza bambini, che ce ne importa. Ma le famiglie con dei piccoli ci pensano due volte», dice.
Dopo il tramonto rimangono soltanto i soldati e i combattenti della “kitat konenut”, un’unità di civili incaricata del primo intervento in caso di attacco.
Sembra le autorità vivano nell’incertezza: provare a ristabilire la normalità o trasformare Kfar Aza in un luogo della memoria? Le famiglie di una coppia di giovani uccisi hanno deciso di aprire la casa ed esporre foto, video e screenshot dei messaggi WhatsApp del giorno del massacro. Di giorno è un viavai di visitatori stranieri, scortati dalle forze di sicurezza israeliane.
Il fatto che Shahar e la moglie non siano rimasti uccisi il 7 ottobre, malgrado viva nel cuore di una delle zone più colpite, è considerato quasi un miracolo.
«Sono sopravvissuti solo perché la loro casa sembra un tutt’uno con quella di fianco; quindi, una volta uccisi i loro vicini Mira e Noam, hanno saltato la loro porta senza capire che dentro c’era qualcun altro», dice Ron, una soldatessa dell’unità portavoce dell’esercito israeliano. «Sono praticamente gli unici superstiti di questa strada».
Shahar, come tanta parte di questa comunità, appoggiava misure per aumentare le forme di interazione fra i villaggi frontalieri e i palestinesi di Gaza.
A un tiro di schioppo dalla sua casa abitava Ofir Libstein, sindaco della municipalità regionale Sha’ar Hanegev. Il suo viso è ancora esposto sugli striscioni della sua campagna elettorale per le elezioni locali che dovevano svolgersi il 31 ottobre. Libstein voleva trasformare il valico di Erez in una cittadella industriale, descritta iperbolicamente nella zona come «una Silicon Valley per israeliani e palestinesi». Anche lui è morto nel massacro.
5 proiettili nel corpo
Shahar Snorman è arrivato nel kibbutz vent’anni fa, all’epoca della Seconda intifada. Ora dice non essere ancora riuscito ad elaborare che cosa pensi, dopo il 7 ottobre, dei suoi vicini di Gaza.
I militari che accompagnano i visitatori tengono a ribadire come, in particolare nella “Schunat hador hatzair”, il quartiere dei giovani, dopo l’attacco dei miliziani siano arrivate due ondate di civili a fare razzia.
Shahar espone poster contro Netanyahu ma ci tiene a raccontare il suo impegno per lo stato quando si parla di sinistra e destra. «Ho combattuto tutte le guerre a cui lo stato mi ha chiesto di partecipare, e ho 5 proiettili nel corpo a testimoniarlo».
Nell’Israele contemporanea il termine “sinistra” viene talvolta utilizzato in maniera dispregiativa dai nazionalisti, come per adombrare una minore dedizione al paese, e provocando risposte di questo tipo.
Ron, la portavoce militare, osserva come il tempo nel kibbutz sembri essersi fermato al 7 ottobre. Sia ha la stessa impressione guardando e ascoltando i media del paese, ancora impegnati a ricordare le storie dei massacri e pressoché del tutto disinteressati alla distruzione e alla morte nella striscia di Gaza. Dove le vittime sono ormai 20 volte quelle in Israele.
Shahar non può fare a meno di tornare ogni giorno su quanto accaduto quel giorno sotto i suoi occhi: «Alle 6.30 del mattino mia moglie è seduta qui a bere il caffè. E io ero in casa a vedere un film francese. Quando abbiamo sentito il rumore è venuta dentro e mi ha detto devi uscire, è incredibile: il cielo era tutto bianco del fumo dei razzi», racconta.
«Un amico ha chiamato e mi ha chiesto: non riesco a contattare mia moglie, potete andare a cercarla? Allora sono uscito, brandendo un coltello. Non so come mi sia venuto in mente, ma l’ho preso».
Nella casa di fianco, di fatto accorpata alla sua, Shahar ha subito trovato la vicina uccisa. Allora si è chiuso nel maamad – la stanza “protetta” – con il coltello in mano. «Quando sono uscito ho visto tre terroristi davanti a casa che inseguivano persone scappate da una casa».
Solo dopo essere stato evacuato Shahar e la moglie hanno appreso l’entità del massacro.
«Siamo da mia sorella per qualche giorno e poi siamo torniamo a Tel Aviv per andare a tutti i funerali. Poi ho manifestato quasi tutti i giorni in via Kaplan, davanti al complesso militare della Kirya, per il ritorno dei rapiti». Infine, tre settimane fa il ritorno solitario a Kfar Aza. Fra i botti delle stragi di Gaza e i ricordi della mattanza del 7 ottobre.
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