- L’annuncio del premier sembrerebbe un inno all’accoglienza: «Il Regno Unito aprirà le porte a ventimila afghani». Un annuncio che stride con la politica e la retorica anti immigrazione di BoJo. Non a caso quella promessa cela trappole.
- Dietro l'annuncio di "welcome" si nasconde l'apertura immediata per soli 5mila afghani. Nell’ultimo ventennio Londra più che dare protezione ha cercato di rimandare indietro gli afghani, rendendosi campione di rimpatri forzati rispetto agli altri paesi europei.
- Non sarà Mister Brexit a invertire la rotta: la sua storia e i fatti dicono il contrario. Più che accogliere, il suo vero obiettivo è non rimanere escluso.
«Il governo ci spieghi come mai il Canada può accogliere ventimila rifugiati afghani mentre noi britannici ci limitiamo alla stessa cifra ma spalmata in cinque anni». Alf Dubs è nato a Praga e nel 1939, quando aveva solo sei anni, sua madre lo mise su un treno diretto a Londra; mise così in salvo il figlio, ebreo, dall’invasione nazista. E Londra lo accolse. Rifugiato lui per primo quindi, e parlamentare a vita, Lord Dubs ora si assume il compito di squarciare un velo di ipocrisia. L’annuncio del premier sembrerebbe infatti un inno all’accoglienza: «Il Regno Unito aprirà le porte a ventimila afghani», dice Boris Johnson. Un annuncio che stride con la politica e la retorica anti immigrazione di BoJo. Non a caso quella promessa cela trappole.
Anzitutto, i numeri dell’annuncio vanno spalmati nel lungo periodo. Il resettlement scheme, il piano per accogliere nuovi cittadini afghani, «si pone come obiettivo l’insediamento di 5mila afghani a rischio entro il primo anno». La cifra che occupa i titoli dei giornali – ventimila – viene quindi diluita nel corso degli anni e rappresenta più un tetto massimo che un obiettivo ambizioso. Per citare l’esecutivo stesso, «il piano andrà monitorato negli anni futuri, per un totale di 20mila persone nel lungo termine». Si parla di cinque anni. Lo scheme prevede che sia assegnata priorità alle donne, alle minoranze religiose, «alle categorie più a rischio di abusi dei diritti umani da parte dei talebani». È giusto dare la priorità ai più vulnerabili, «ma queste persone sono in pericolo adesso, bisogna offrire sicurezza subito», dice Dubs. Nel dibattito parlamentare odierno, le perplessità sono arrivate da molti. «Il piano è insufficiente»; «bisogna fare presto, quickly, quickly», sono parole pronunciate oggi da alcune deputate.
La teoria e la pratica
Come sono andate le cose finora? I dati Eurostat per la fase dal 2008 al 2020 dicono che il Regno Unito in confronto ai paesi europei è lo stato che ha effettuato più rimpatri forzati di afghani. Ne ha rimandati a casa oltre 15.700; la Germania 8.600, tra i virtuosi c’è l’Italia (215). Per anni, più che ad accogliere gli afghani, Londra ha pensato a come rispedirli indietro. Già nel lontano 2003, con al governo lo stesso Tony Blair che ha trascinato il Regno prima nella guerra d’Afghanistan e poi in quella irachena, centinaia di afghani che vivevano sull’isola vennero rispediti indietro. Downing Street voleva sforbiciare il numero di richiedenti asilo, perciò firmò un accordo per i rimpatri con il governo afghano, e sulla base del fatto che «non c’era più il rischio di persecuzione» in tanti furono considerati migranti economici e rimandati indietro. Fino all’anno prima, arrivavano 700 richieste di asilo al mese di afghani; così Londra, che non aveva mai negato loro protezione dagli anni Settanta, decise di invertire la rotta. Coi conservatori non è certo andata meglio: con David Cameron al governo, solo il sei per cento di minori afghani non accompagnati ha ottenuto la protezione richiesta. Tra 2009 e 2015, seicento minori non accompagnati sono stati rispediti indietro. Nel 2016 l’esecutivo ha promesso aiuto a tremila bambini senza genitori che si trovavano a Calais, molti dei quali afghani, ma l’aiuto di fatto è arrivato per meno di quattrocento.
Tuttora, mentre lancia il piano di “benvenuto”, il governo ribadisce l’atteggiamento duro verso chi usa rotte illegali per arrivare a Londra: «Se gli afghani che cercano rifugio da noi arrivano coi barchini dalla Manica, li tratteremo alla stregua di tutti gli altri migranti che provano a entrare così», avverte la segretaria di stato agli Affari interni, Priti Patel.
L’ambiente ostile e l’impero
Chi pensa che Johnson possa cambiare le politiche inglesi in direzione dell’accoglienza non considera il suo curriculum, che lascia intendere il contrario. Prima la retorica elettorale, e poi le politiche, praticate da Johnson nell’era Brexit, non hanno fatto che esasperare lo hostile environment, il contesto ostile a rifugiati e migranti. L’accademica britannica Maya Goodfellow, che di questo ha scritto in Hostile Environment: How Immigrants Became Scapegoats, per lui usa l’etichetta di «autoritarismo anti migranti». I casi di europei trattenuti in centri di detenzione sono la punta dell’iceberg. Perché allora Londra a parole mostra iniziativa sui rifugiati, fino ad accusare l’Ue di non fare altrettanto?
La ragione sta nella debolezza: stretto tra ambizioni imperiali e il rischio sempre più forte di rimanere isolato dopo Brexit, Johnson esibisce protagonismo – infatti è con lui che si sono consultati Merkel e Macron prima di parlare alle rispettive nazioni – e vicinanza all’alleato statunitense. Dialoga con Biden sulla situazione in Afghanistan e concorda con lui il prossimo summit del G7. Più che accogliere, l’obiettivo di BoJo è di non rimanere escluso.
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