È duro ammetterlo ma dei rifugiati si stancano tutti, sia i paesi poveri che quelli prosperi, sia le democrazie che gli stati autoritari. L’aria del tempo si è talmente indurita che, anche dopo gli slanci di solidarietà, le società vengono prese da un riflesso di autoconservazione al punto da non sopportare più i nuovi arrivati – con i quali si erano pur sentite solidali – per paura di perdere qualcosa.

È la sorte che accomuna i profughi armeni del Nagorno Karabakh in Armenia agli ucraini in Europa. Oltre 120mila abitanti della regione contesa tra Erevan e Baku sin dalla fine dell’Unione sovietica (ma le rivendicazioni sono ancora più antiche), e che si era autoproclamata in repubblica dell’Artsakh (ma nemmeno l’Armenia l’aveva mai riconosciuta), sono dovuti fuggire precipitosamente nel settembre 2023 in direzione dell’Armenia dopo la guerra-lampo scatenata dall’Azerbaigian, atto finale di 35 anni di conflitto. Complessivamente la violenta contesa ha fatto circa 40mila vittime tra il 1988 e il 2023, scavando un fossato incolmabile tra i due paesi.

Per i profughi non è stato semplice trovare accoglienza nel paese fratello: l’Armenia non riconosce la cittadinanza agli armeni del Karabakh. I rifugiati ricevono un passaporto armeno con una dicitura speciale (“070”) che non permette l’accesso alla cittadinanza piena; serve solo per viaggiare. Il governo sospetta che gli armeni del Karabakh possano mutare il delicato equilibrio elettorale mentre sta lavorando ad una riconciliazione con l’Azerbaigian.

Un brusco risveglio

Il premier Nikol Pachinian pensa che sia giunto il momento di chiudere il vecchio conflitto e sa bene che gli armeni del Karabakh, se votassero, potrebbero impedirglielo. Il clima politico del paese è rovente: l’opposizione ultra nazionalista resta in agguato, le pressioni di Baku sono molto forti e la minaccia di un’invasione è persistente. In tale quadro i rifugiati diventano un ostacolo alla normalizzazione anche se godono del sostegno della chiesa armena, propensa ad abbracciare la loro principale rivendicazione: il diritto al ritorno nelle loro terre ancestrali.

Intanto nell’ex Nagorno gli azeri stanno cancellando ogni segno visibile della presenza armena, distruggendo chiese, monasteri e cimiteri. Si tratta dell’ennesimo “genocidio culturale” tipico di quelle terre, con manipolazione della storia. Molti armeni ritengono tuttavia che il primo ministro non abbia torto a voler girare definitivamente la pagina di una guerra infinita e guardano con diffidenza ai profughi e alle loro recriminazioni che riportano tutti indietro.

L’Armenia è isolata, stretta tra Georgia, Iran, Turchia e Azerbaigian: seppure l’indirizzo politico del governo è filooccidentale, nessuno può negare che sia debba tener conto della preponderante influenza russa, cosa non facile di questi tempi. Nessun aiuto militare potrebbe mai venire dagli Usa o dall’Unione europea (quest’ultima ha bisogno del gas azero): la cosa più saggia è dunque fare pace con Baku abbandonando antiche pretese.

Oltretutto a Erevan i prezzi sono saliti a causa della presenza di fuoriusciti russi, giovani uomini che non vogliono essere richiamati alle armi. I profughi del Karabakh ricevono per ora l’equivalente di circa 120 euro di sussidio per persona al mese, ma ciò sembra già troppo a molti cittadini soffocati dalla crisi economica e dall’inflazione.

Dopo decenni di propaganda nazionalista e di sentimenti patriottardi, gli armeni si sono bruscamente risvegliati nel peggiore dei modi: sconfitta militare, pressione esterna, recessione e pochi amici. In tutto questo il destino di chi è dovuto fuggire dal Nagorno è certamente il peggiore: hanno perso tutto e si sentono “non amati” dai propri fratelli, con la consapevolezza di essere divenuti un peso se non addirittura un ostacolo sulla via della pacificazione. 

Il destino degli ucraini 

Gli ucraini riparati in Europa dopo l’aggressione russa stanno subendo una medesima sorte, almeno dal punto di vista emotivo. L’unica differenza è di essere di un’altra nazionalità. A settembre la Norvegia ha annunciato di aver cessato di offrire automaticamente lo status di rifugiato ad ogni ucraino richiedente. Attualmente Oslo ne ospita circa 85.000 su una popolazione totale di cinque milioni e mezzo. L’asilo automatico è stato deciso dall’Unione europea (a cui la Norvegia si è conformata) attivando la direttiva sulla protezione temporanea. A fine luglio circa 4,3 milioni di ucraini godevano di tale status in tutto il territorio dell’Unione.

Da ora in poi la Norvegia considererà le regioni ucraine occidentali come “regioni sicure” e non darà più asilo a chi proviene da Lviv o Ivano-Frankivsk. I norvegesi protestano per il peso della presenza ucraina sui servizi sanitari, sul sistema educativo e sugli alloggi. In Ungheria stanno iniziando gli sgomberi di rifugiati ucraini dopo l’indurimento delle condizioni di accoglienza. Anche in questo caso gli ucraini delle regioni occidentali dovranno andarsene, ad eccezione di quelli di origine ungherese. I profughi ucraini in Ungheria sono 30.000 circa.

In Repubblica Ceca sono rifugiati in oltre 300mila e anche qui il clima sta mutando: l’alloggio sarà offerto solo per tre mesi, dopodiché ogni famiglia ucraina dovrà pagarselo. Anche in questo caso i cittadini paiono credere alla falsa propaganda dei partiti ultranazionalisti, e cioè che i rifugiati ricevano più aiuti e soldi dei cittadini locali e che vengano favoriti nella ricerca del lavoro e della casa.

Solidarietà esaurita

La propaganda bellicista di questi due anni in Europa sta avendo una conseguenza non prevista: il rigetto dopo tanta retorica. Sarà difficile da spiegare alle autorità ucraine e non è escluso che ad un certo punto le società euroccidentali si ribellino anche ai troppi denari investiti in armi. La vittoria delle destre populiste nei Paesi Bassi ha provocato cambiamenti: anche lì i rifugiati ucraini (nel paese ve ne sono 114mila) dovranno trovarsi alloggio da soli, pena finire nei campi-profughi assieme a tutti gli altri, con il rischio (per ora remoto) di espulsione.

Per i due milioni di ucraini in Polonia la situazione è meno tesa e solo l’estrema destra denuncia la “ucrainizzazione” del paese. In Germania, che ne accoglie oltre un milione, iniziano a sentirsi malumori: i due terzi degli ucraini sono donne, spesso con figli, che non si inseriscono nel mercato del lavoro a causa di sussidi troppo alti che le disincentivano, o almeno così si vocifera sempre più spesso.

Malgrado la Commissione abbia prolungato al 2026 il trattamento di protezione temporanea a favore degli ucraini, Italia, Polonia e Danimarca hanno chiesto che siano sottoposti ad un sistema di visti e/o permessi di lavoro. Più il conflitto si allunga e meno sembra che gli europei siano disposti di conseguenza a prolungare la propria solidarietà. La guerra infinita ha molti effetti di ritorno e si rovescia contro chi l’ha accettata come unica via: i governi europei farebbero bene a riflettere sui limiti e sulle contraddizioni delle narrazioni marziali enfatiche e vuote. 

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