È diventato molto difficile parlare di pace nel clima attuale in cui l’aria è inquinata da un’epidemia di inimicizia e di odio.

Chi si intossica non se ne rende nemmeno conto. Sia a Gaza che in Ucraina la guerra appare come l’unica soluzione, l’unica via logica e quasi necessaria. È in corso una normalizzazione della guerra, una sua riabilitazione accompagnata da una speciale attrazione che cancella ogni visione alternativa: la guerra sta diventando una moda che attira soprattutto i responsabili e avvelena le mente dei giovani con eccitazioni nazionaliste.

Se nel cuore dei popoli – in particolare delle donne e degli anziani – c’è la paura che il mondo scivoli verso la grande guerra generalizzata, da parte delle leadership non si disdegna un discorso bellico travestito da vittimismo (d’altronde c’è sempre qualcosa per cui lamentarsi).

Segno di debolezza

Cosa sta accadendo alle leadership globali? Qual è la ragione per cui scivolano su tale piano inclinato senza reagire? Sembra come se parlare di pace, dialogo e compromesso sia divenuto segno di vergognosa e intollerabile debolezza.

Si può comprendere (anche se non giustificare) che ciò attecchisca nelle menti di vertici autoritari. La domanda è perché ciò accade anche per le leadership democratiche. Pare che si contagino a vicenda e che nessuno accetti la via del dialogo perché verrebbe considerato un cedimento o – come si dice sempre più spesso – “una resa”.

C’è un’ovvia e profonda differenza tra democrazia e regimi, ma davanti alla guerra le leadership reagiscono tutte allo stesso modo: un ingranaggio che ha il potere di accecarle entrambe. In questo c’è qualcosa di equivoco che dovrebbe far riflettere.

È come se la guerra paralizzasse tutte le leadership allo stesso modo, annullando la loro capacità di critica e autonoma decisione. Davanti alla guerra si affievolisce la differenza tra una democrazia e un regime autoritario perché essa impone regole uguali per tutti e un medesimo linguaggio.

La guerra è un tiranno che non perdona e non concede vie di fuga: un tunnel uguale per tutti.

Così si annienta lo spirito critico e l’intelligenza politica, decidendo di non utilizzare l’arte della politica e della diplomazia, che precisamente significherebbe trovare soluzioni laddove sembra che non ve ne siano. Sarebbe necessario quel salto di immaginazione alternativa che però, quando si è infilati nel tunnel, non si riesce più a fare. La guerra produce una testardaggine ripetitiva, un conformismo mediocre, la sedazione di ogni immaginazione e intelligenza politica. È proprio ciò che la rende diabolica: annulla il pensiero. Basta farci caso: in guerra tutti i leader tendono a ripetere sempre le stesse frasi e sembra che non ascoltino, che non accettino nessun contraddittorio.

Ciò è simile al sonnambulismo: chi ne è preda se scosso o svegliato di colpo si arrabbia e la prende male, proprio come i sonnambuli. Per ciò che riguarda l’Italia non si tratta di un giudizio moralista: è scritto nei rapporti Censis che utilizzano proprio il termine “sonnambulismo”, divenuto la cifra della società italiana in un mondo reso opaco dall’incertezza. A rendere ancor più pesante l’atmosfera contribuisce la cultura del nemico che sta contaminando tutti a diverse gradazioni. D’altronde non si fa una guerra senza conseguenze né la si porta avanti in modo innocente, anche se è stata l’altra parte ad aggredire.

Guerra nei cuori

La guerra comincia sempre nei cuori e nelle menti, e per fermarla ci vuole una grande opera di guarigione. Il papa è talmente preoccupato da usare parole ruvide e forti, da profeta: alzare bandiera bianca. In questo modo vuole scuotere le coscienze dei sonnambuli incantati dai loro ragionamenti ripetitivi. La guerra non è uno strumento come un altro da potersi controllare e gestire a piacimento. Coloro che affermano di esserne padroni mentono: non è mai vero, perché essa sfugge al loro controllo. È facile da dimostrare: basta pensare a quanto sia difficile fermare un conflitto dopo che è iniziato.

Ecco perché le guerre si eternizzano: ne abbiamo sotto gli occhi numerosi esempi nella storia anche recente. L’intorpidimento della politica di fronte a tali atroci vicende si dimostra con una semplice equazione: non accorgersi, non tener conto o non considerare importanti, dei costi umani. L’Ucraina si sta svenando se non si ferma il suo attuale massacro, per non parlare del popolo palestinese. In Ucraina c’è il rischio molto concreto che essa perda altro territorio; a Gaza che non sia più possibile viverci. Si risponde che non sarebbe giusto fermare i combattimenti, ma è ancora più ingiusto che l’Ucraina muoia dissanguata o che il popolo palestinese scompaia del tutto e Israele ne sia il colpevole. La prima giustizia per l’Ucraina non è il principio ”giusto-sbagliato”, ma è la pace. Così anche per israeliani e palestinesi: la guerra attuale non darà uno stato ai palestinesi né più sicurezza a Israele.

Sbilanciamento

Ormai anche i militari esperti dicono che la Russia ha tutto il tempo necessario e i mezzi mentre l’Ucraina ne manca gravemente. Così per Gaza gli stessi esperti affermano che l’offensiva israeliana non ha prospettive né un piano per il dopoguerra, e nemmeno Hamas. Da più parti si teme che l’Europa e gli Usa non possano né vogliano spendere ancora molto per difendere l’Ucraina e si stanchino anche di Israele (vediamo ciò che accade nelle università). Kiev rischia forse di fare la fine di Kabul, Gaza quella del Nagorno Karabakh e Israele di restare isolato? Nessuno vuole soluzioni tanto estreme, ma è urgente porre il problema politico della risoluzione di entrambi i conflitti sin da oggi, visto che troppe volte l’occidente ha tradito i propri alleati, così come la Russia e altri hanno strumentalizzato i propri.

L’Ue fa troppo poco

L'Unione europea fa ancora troppo poco per favorire la fine di entrambi i conflitti: dovrebbe cercare in tutti i modi di sostenere iniziative per un dialogo che almeno raggiunga delle tregue. Dovremmo cercare una ripresa dello spirito europeo basato sulla pace: era il sogno dei fondatori dell’Europa e resta indispensabile se vogliamo garantire ai nostri figli un futuro di pace, anzi un futuro tout court.

Questo dovrebbe essere il tema vero della campagna elettorale delle prossime elezioni europee: come ritrovare quello spirito fondatore, frutto sofferto della generazione della Seconda guerra mondiale la quale sognò per le successive qualcosa di diverso e di migliore.

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