Le sinistre europee dovrebbero trarre rapide e sostanziali lezioni dalla sconfitta in Cile dove la nuova carta costituzionale, appositamente elaborata da una costituente, è stata respinta da oltre il 62 per cento dei cittadini, con un’affluenza pari all’85 per cento una delle più alte della storia della democrazia cilena.

La destra festeggia ma la ragione di tale sonora sconfitta non sta in un rigurgito pinochetista, bensì nell’egemonia sulla sinistra delle forze intersezionali basate sulla cancel culture, con la conseguenza di alienarsi parte dei propri sostenitori e allontanare il centro.

Metamorfosi a sinistra

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Si tratta dell’ultima metamorfosi: da una politica basata sui temi sociali e collettivi (cioè un’idea di società del convivere), a quella dei diritti individuali che da soli spezzano il tessuto comune trasformandolo in una sommatoria di minoranze, poste una accanto all’altra senza collante politico-sociale, contrapponendole in un gioco senza fine di rancori e rivendicazioni.

Il testo prodotto dalla costituente cilena era esattamente questo: pieno di diritti sì, ma posti uno avverso all’altro senza alcuna visione di sintesi. Il risultato è stato un tracollo generale che favorisce la destra. È di tale tentazione che la sinistra occidentale deve liberarsi: i diritti individuali sono veramente protetti solo se inseriti in un disegno collettivo che unisce la società.

In caso contrario ogni giorno può levarsi la rivendicazione di una “sezione” (anche artefatta, ma non è questo il punto) della società, che si mette contro tutte le altre rivendicando la propria parte di diritti come se quelli collettivi non fossero una garanzia sufficiente.

Il tema non è la moltiplicazione dei diritti ma la cultura che li sostiene: una legislazione eccessiva frammenta, alimenta una lotta infinita e non risolve. «Il tutto è superiore alla parte», scrive papa Francesco e aggiunge: «Il modello è il poliedro che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità».

Contro le disuguaglianze 

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Cos’è accaduto invece in Cile? All’inizio tutto era iniziato bene con la protesta studentesca dell’ottobre 2019 contro l’aumento del prezzo del ticket della metro voluto dalla destra. Già il 25 ottobre un milione di persone si era riversata per strada chiedendo una nuova costituzione.

Tale salto rivendicativo si spiega con il fatto che la struttura economica del Cile è ancora privatistica, con educazione, sanità e servizi essenziali in mano ai privati secondo le formule iperliberiste del tempo di Pinochet, che aveva chiamato a Santiago i tristemente famosi Chicago Boys.

In altre parole: il Cile è stata una cavia dell’iperliberismo selvaggio prima ancora che quest’ultimo fosse consacrato dalla globalizzazione. I cileni sono consapevoli del fatto che ciò ha profondamente alterato la loro società, snaturandola mediante una separazione tra i ceti molto diseguale, con una piccolissima classe di privilegiati e una maggioranza di classi modeste o impoverite, schiave del lavoro precario o sfruttato.

Persistono ancora oggi forti disuguaglianze economico-sociali e la stragrande maggioranza della popolazione non ha accesso pubblico ai servizi. Al tempo della presidente Bachelet la grande rivendicazione era stata l’educazione per tutti senza che si fosse ottenuta una vera svolta. Mentre il benessere rimane prerogativa di una ristretta élite, la crescita economica indotta dal liberismo ha coperto per molti anni gli squilibri ma aumentato le diseguaglianze.

È grazie agli studenti che nell’ottobre 2019 riprendeva, in forma più ampia ed organizzata, una protesta da tempo covata dentro la società cilena. Ai giovani si sono associate quasi subito numerose organizzazioni della società civile e un importante movimento femminista per la parità dei diritti. Tutta la società cilena si rimetteva in movimento.

La scossa è stata talmente forte da spingere i partiti politici ad un accordo nel novembre dello stesso anno in favore della “pace sociale”, iniziando il processo verso la riscrittura della costituzione. A tale scopo veniva convocato un referendum che l’anno successivo, nell’ottobre del 2020, ha visto quasi l’80 per cento dei cileni pronunciarsi a favore di una riforma della carta. Va detto che quest’ultima era stata varie volte emendata e non assomigliava già più a quella voluta da Pinochet ma la volontà popolare voleva cambiare la struttura profonda di una società costruita sui privilegi.

Si trattava cioè di uscire dall’iperliberismo selvaggio. Di conseguenza le forze politiche stabilivano di costituire una convezione per elaborare un nuovo testo. Tale assemblea veniva eletta nel maggio del 2021 con criteri innovativi: i 155 seggi erano divisi secondo il criterio della parità, mentre 17 venivano riservati ai popoli indigeni (in particolare ai mapuche con i quali esiste un’antica diatriba legata alla confisca delle loro terre).

Sulla scia di tale entusiasmo, nel dicembre 2021 era anche eletto presidente della repubblica Gabriel Boric, candidato delle sinistre. Sembrava che tutto potesse finalmente cambiare. All’inizio del luglio 2022 la convenzione ha rimesso al presidente il testo finale, quello respinto pochi giorni fa con il referendum. Il successo del “rechazo” (rifiuto) è stato clamoroso: nemmeno in zona urbana, come a Santiago, il sì ha prevalso. Nella capitale il 55 per cento ha respinto il testo mentre nel sud delle minoranze etniche il no ha raggiunto punte di oltre il 70 per cento. Al nord, teatro della crisi migratoria con l’arrivo dei venezuelani impoveriti, l’aumento del precariato e della criminalità, il no ha toccato il 68 per cento.

Ragioni di una sconfitta

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Cosa ha portato i cileni, che si erano largamente espressi in favore del cambiamento, a bocciarlo? In sintesi si può dire che invece di concentrarsi sui mutamenti socioeconomici creando le basi per un rinnovato welfare pubblico nazionale, i partecipanti della convenzione hanno preferito mettere l’accento sui diritti individuali e su quelli delle minoranze, dando sfogo al rancore e contrapponendoli, con il risultato di cristallizzare tali conflitti nella carta o almeno dare l’impressione di volerlo fare.

Accanto ai diritti alla salute, all’educazione, alla pensione e alla casa per tutti pur iscritti, il dibattito si è polarizzato sulle rivendicazioni individuali, scatenando infinite polemiche e dividendo invece di unire. Si è così ottenuto il risultato opposto a ciò che si ricercava: nessun poliedro ma uno spezzatino.

Anche la questione sulle minoranze è stata affrontata con un atteggiamento rivendicativo che ha spaventato l’elettorato. Imporre i diritti non è stata la miglior scelta: il centro dello scacchiere politico si è diviso assieme ad una parte della sinistra tradizionale, entrambi saldati alla destra nel votare contro. Hanno contribuito ad affossare la costituzione anche gli effetti della pandemia e gli errori dell’amministrazione Boric che non ha saputo mediare con maggior pragmatismo. Il risultato è che a prevalere è stata la destra e il suo interesse a mantenere in piedi un sistema basato sulla privatizzazione.

Non è scomparsa la volontà dei cileni di cambiare il paese: è stata la sinistra a tradire tali attese in nome di una troppo forte dose di politically correct.

Problema globale

Anche in Europa e negli Stati Uniti ci si trova davanti ad una simile situazione: una parte delle sinistre vorrebbe privilegiare i diritti individuali a scapito di quelli sociali. In questo modo la sinistra appare disinteressarsi a ciò che la definisce.

Decidere se cambiare la “struttura” economica o scegliere la “sovrastruttura” dei diritti: detto così si tratta di un vecchio problema per i progressisti. Tale contrasto non deve esistere: i due universi vanno sempre assieme e non si può privilegiarne uno a scapito dell’altro. È ormai dimostrato che non è vero che uno sviluppo che si limiti ai diritti individuali cambi la struttura economica e nemmeno quella sociale: la solitudine che aumenta e lo sfrangiamento sociale stanno lì a dimostrare il contrario.

Ecco perché si parla di sinistra ztl o radical chic: sono coloro che scambiano i diritti individuali con la rivoluzione sociale (che in realtà non desiderano). Occorre allora dimettere la lotta per i diritti individuali? No di certo ma ogni qualvolta se ne difende uno, occorre pensare a come inserirlo all’interno della protezione dei diritti collettivi. Il diritto di uno prende senso soltanto all’interno di una comunità e la difesa di quest’ultima non va mai lasciata alla destra. Possibile mai che le sinistre non sappiano fare due cose insieme? 

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