Dopo l’assalto alla Moneda, anche la memoria cilena è diventata preda di narrazioni false. Cinquant’anni dopo la morte di Allende, il Cile ha compiuto grandi passi ma non ha sradicato i retaggi della dittatura e non ha scosso l’indifferenza generale
Quando l’11 settembre 1973 Salvador Allende, a bombardamento del palazzo della Moneda in corso, ha pronunciato a Radio Magallanes uno dei più alti discorsi politici della Storia, quello sulle “grandi Alamedas” dove sarebbe tornato a passare l’uomo libero, non sapeva che il golpe stava per porre fine a una stagione storica iniziata con la Seconda Internazionale, e che ha il suo massimo auge con i Trenta gloriosi. Di quella storia Don Salvador – un medico nato nel 1908, classe media dedita alla causa popolare, entrato in parlamento durante la guerra civile spagnola – era figlio e apostolo.
Da allora decenni di propaganda, con testimonial come Henry Kissinger, Margaret Thatcher, Karol Wojtyla, hanno narrato il golpe di Augusto Pinochet come il meglio che potesse accadere al Cile. È finita occultata così l’esperienza di Unidad Popular, un governo che all’epoca si sarebbe detto “borghese”, con un programma riformista avanzato che – pur nella polarizzazione estrema della società – godeva di un consenso popolare in crescita. Questo consenso permetteva ad Allende di guardare con fiducia al Plebiscito che voleva annunciare il 10 settembre. Il traditore, allora Capo di Stato Maggiore, con l’inganno lo convinse a rinviare di 48 ore – il golpe era l’11 – un fatto noto riemerso in questi giorni da ulteriori carte tra le migliaia desegretate negli USA negli anni.
Un atto di coerenza politica
Da allora su Allende si combattono più battaglie della memoria a partire da quella sul suicidio, negato per decenni da sinistra. L’allegoria dell’assassinio è figlia della fantasia di Gabriel García Márquez, ma ha avuto modo di attecchire per motivi tanto politici che antropologic; e solo nel corso di decenni si è poi affermata l’interpretazione del suicidio come “atto di coerenza politica” verso il regime democratico. Ben lo aveva compreso in Italia Enrico Berlinguer, nelle sue note riflessioni su Rinascita che aprirono il cammino al Compromesso storico con la DC.
Con Allende sarebbero morti circa 3150 militanti, un prezzo alla nascita del mondo oltre il Novecento. Coloro che avevano la forza ma non la ragione, non si limitarono ad abbattere il governo legittimo ma sperimentarono una “rivoluzione conservatrice” (valga l’ossimoro) che avrebbe chiuso scuole e ospedali e privatizzato tutto l’esistente nel dogmatismo neoliberale di Friedrich von Hayek e Milton Friedman, quasi un decennio prima di Thatcher e Reagan nei paesi centrali. Il Cile piegò la testa, in assenza di libertà di stampa, elezioni, sindacati, in un paese-prigione che Pinochet avrebbe depoliticizzato nel profondo.
È questo il vero trionfo: cancellare la memoria che scuole e ospedali un tempo fossero pubblici e possano tornare a esserlo. Che il modello fosse intoccabile, la “fine della Storia”, fu accettato da Partito Socialista e Democrazia Cristiana che avrebbero governato insieme la Transizione dal 1990 in avanti durante le presidenze Aylwin, Frei figlio, Lagos, e poi con l’alternanza tra Michelle Bachelet e il conservatore Eduardo Piñera. Il paese divenne una “democrazia protetta”, formale ma senza toccare il modello economico né aprire il capitolo delle violazioni dei diritti umani, che il dittatore riteneva sistemato con l’autoamnistia del 1978.
Giustizia nella misura del possibile
Sui diritti umani poco cambia anche dopo l’azione esogena dell’arresto di Pinochet a Londra nel 1998. Riportato a casa l’ex dittatore con gran sollievo di tutti, continua a vigere, al contrario che nell’Argentina kirchnerista, la politica già enunciata da Patricio Aylwin nel 1990: “giustizia nella misura del possibile”. Passi avanti, ma senza la forza di smantellare il tessuto di complicità della dittatura e la sostanziale indifferenza di una società ben descritta nel classico Chile actual del sociologo Tomás Moulián (1997). È un Cile che continua a bearsi della sua modernità (reale) e di un PIL da primo mondo ma che, scomposto in decili, mantiene ricchezze sconfinate e povertà senza speranza e retto dal 1980 dalla Costituzione autoritaria scritta da Pinochet.
Quando il Cile ha provato a cambiarla - con la cosiddetta “esplosione sociale” del 2019, le grandi proteste giovanili represse nel sangue dall’ultimo Piñera – ha prima eletto a grande maggioranza una Costituente iper progressista, per poi pentirsene, e bocciarne la nuova Costituzione nel 2022, tenendosi quella dell’80 e mettendo in gran difficoltà il giovane presidente Gabriel Boric, che da quelle proteste proveniva. È un’ultima contraddizione: oggi è al governo in Cile il Partito Comunista che fu di Pablo Neruda, ma ancora sotto l’ombra nera di Pinochet.
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