- In-N-Out ha deciso di costruire entro il 2026 il suo quartier generale orientale nella città di Franklin, Tennessee, oltre a una serie di ristoranti intorno a Nashville. L’obiettivo è di espandersi quanto più possibile nell’est, contrariamente a quanto affermato nel 2018 dalla proprietaria, Lynsi Snyder-Ellingson.
- La vicenda ha riaperto l’eterno dibattito sui vantaggi di una produzione allargata i cambio della perdita di identià
- Non è l’unico caso, come dimostrano i già noti McDonald’s e Starbucks. Ma anche l’italiano All’Antico Vinaio, partito da Firenze e sbarcato all’ombra di Times Square
Nell’annunciare l’apertura di In-N-Out Burger a est, il governatore del Tennessee Bill Lee era euforico, ai limiti dell’emozionato. Lo testimoniavano gli occhi, pieni di entusiasmo, e il preciso utilizzo delle parole, pronunciate alla stampa a inizio gennaio quando l’ha definita «una decisione che cambia la vita» a migliaia di famiglie. Per tante altre, leggere la notizia è stato più simile a un incubo. La storica catena californiana ha infatti deciso di rinnegare sé stessa e, entro il 2026, costruirà il suo quartier generale orientale nella città di Franklin, oltre a una serie di ristoranti intorno a Nashville. Sarà solo il primo passo, con l’obiettivo di espandersi quanto più possibile nell’est. Eppure la proprietaria Lynsi Snyder-Ellingson non sembrava pensarla così, nel 2018: «Non ci vedo disseminati in tutti gli Stati Uniti. Se ci mettete in ogni Stato, perdiamo smalto». Una promessa infranta in nome del mercato, che rischia tuttavia di diventare controproducente.
Ad aprire il primo In-N-Out, un chiosco e nulla più nella cittadina di Irvine, furono Harry Snyder e sua moglie Ester. Era il 1948 e non avevano alcuna intenzione di spostarsi da lì negli anni a venire. Espandersi sarebbe stata la conferma del loro successo, ma non avrebbero avuto le stesse garanzie di qualità sul cibo venduto. Si sono ricreduti quando il loro piccolo spazio è diventato un’istituzione quasi religiosa per gli americani, non soltanto per le citazioni bibliche sotto i bicchieri della catena.
La famiglia Snyder aveva ormai capito che non si poteva più relegare In-N-Out alla sola California, purché non si fosse allontanato troppo da casa. Così, nel 1992 venne aperto il primo ristorante in Nevada, poi a seguire Arizona, Utah, Texas, Oregon e Colorado. Infine la svolta all’inizio di quest’anno, che lo spingerà laddove aveva garantito di non spingersi, molto simile a una pugnalata per i clienti più ortodossi.
Chilometri contro qualità
La vicenda ha riaperto l’eterno dibattito sui vantaggi, o meglio gli svantaggi, di una produzione allargata in cambio di una perdita d’identità. La promessa di In-N-Out era di non aprire alcun fast food a più di dieci ore di camion da dove vengono prodotti, o trecento miglia, per via della politica aziendale che non consente di avere forni a microonde o congelatori dove cucinare e conservare il cibo. Una delle caratteristiche che lo differenzia dal resto della concorrenza è il menù ristretto.
L’elenco riporta quello che uno si aspetta di mangiare in un fast food, panini, patatine e bibite di diverse dimensioni nel rispetto della tradizione, con qualche eccezione come i frappè, aggiunti solo nel 1975. Freschezza è la parola d’ordine, ma le parole hanno un peso relativo se paragonate ai fatti, che dimostrano in effetti il contrario. Il timore dei suoi fidelizzati è che un panino mangiato al caldo della California non potrà mai avere lo stesso sapore di uno addentato al fresco del Tenneesse, né rilasci le stesse endorfine del cibo autoctono, gustato sul posto, più buono per una serie di ragioni. La scelta di In-N-Out era dunque tra rimanere ancorati alla propria storia o rinnegarla, spostandosi alla ricerca di successo che, spesso, non è sinonimo di qualità.
La California
Quanto sta accadendo a In-N-Out ha ricordato la storia dell’altro hamburger a stelle e strisce per eccellenza, quello di McDonald’s. La vicenda è nota: partiti anche loro da un chiosco, i due fratelli Dick e Mac aprirono nel 1940 il loro primo ristorante a San Bernardino. Mai avrebbero pensato che, quindici anni dopo, si sarebbero trovati con circa tre milioni di dollari (insieme alla promessa di una percentuale a vita sulle vendite, mai siglata su un pezzo di carta e quindi dal valore pari a zero) da un rappresentante di frullatori, Ray Kroc, che tradendo la loro originalità si è espanso prima in America e poi nel mondo, diventando miliardario.
Doveva essere una un’attività a conduzione familiare ma si è trasformata in uno dei simboli della globalizzazione, con un fatturato che nel 2021 superava i ventitré miliardi di dollari e un numero di ristoranti sparsi per tutto il globo che, fino al 2018, lo rendeva il fast food più diffuso sul pianeta. L’intenzione è di aprire altre 1.900 sedi entro l’anno, nonostante i franchisee siano spaventati dal rialzo dei prezzi.
Non è un fast food, ma anche Starbucks non è da meno. È presente in 78 paesi con quasi 29mila punti, meno della metà negli Stati Uniti, pronta ad aprirne altri cento in Gran Bretagna. L’idea iniziale dei tre fondatori probabilmente era diversa da ciò che è stato. A legarli a In-N-Out c’è un elemento: la California. Starbucks è originaria di Seattle ma durante i suoi primi anni si riforniva solamente dalla torrefazione Peet’s Coffee, a San Francisco. La svolta è arrivata nel 2012, dopo l’accordo con Teavana da 620 milioni di dollari, aumentando il successo già raggiunto in patria e, successivamente, al di fuori del territorio nazionale. A ogni apertura, però, lo stesso cruccio accompagna i più scettici. Ha senso portare il caffè in stile americano laddove la cultura del luogo non lo contempla? Un dubbio legittimo, non per chiudere le porte alle novità ma, al contrario, per valorizzare i prodotti locali. Nel 2018 ha aperto anche a Milano, che ne vanta sei, e nei piani futuri c’è anche Roma, ma c’è chi preferisce la tranquillità di bersi un caffè al proprio bar di quartiere piuttosto che uno molto lungo in un bicchierone di carta, sorseggiato mentre si cammina di fretta.
Il caso italiano
Tuttavia è vero anche il contrario, con le nostre aziende che si fanno conoscere all’estero. Come nel caso de All’Antico Vinaio, partito da Firenze e sbarcato due anni fa a New York, con l’appoggio di Joe Bastianich, Da Via de’ Neri a quella all’ Eighth Avenue il passo è stato breve e, a quanto pare, per nulla azzardato. Gli elogi piovono come l’olio sulla schiacciata farcita, che ha reso celebre il marchio di Tommaso Mazzanti. Tuttavia, in un articolo del New Yorker dal titolo poco fraintendibile (The irresistible sandwiches of All’Antico Vinaio) viene elogiata la qualità dei prodotti e l’arredamento del locale, con un’unica stonatura tra le righe: «L’Eighth Avenue non è Via de’ Neri. Il negozio di Firenze è a due minuti a piedi da Palazzo Vecchio, dove si trova la famosa copia del David di Michelangelo. Il negozio di New York è a sei minuti dal M&M’s World di Times Square».
Elementi di contorno che tuttavia hanno la loro importanza, agli occhi dei clienti. Giudici severissimi, che a fatica accettano di vedere i loro riferimenti gastronomici delocalizzarsi in giro per il mondo, diventando catene snaturate di autenticità e qualità, sacrificate in nome di un qualcosa da sempre superiore, come confermato nel 2015 dalla stessa Lynsi Snyder. Alla domanda se avesse mai trasformato In-N-Out in un franchising o l’avesse quotato in borsa, rispose categorica: «L’unico motivo per cui potresti farlo è per soldi. E non lo farei». Forse non era poi così convinta.
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