La caduta verticale dell’African National Congress (Anc), il più antico movimento di liberazione d’Africa (ha più di un secolo), nelle recenti elezioni sudafricane è forse il più clamoroso esempio del declino che i partiti tradizionali africani – al potere in tanti paesi fin dalla fine del colonialismo – stanno vivendo in tutto il continente.
Lo storico partito di Nelson Mandela è passato dal 65 percento abbondante del 2009 al 62,1 del 2014, poi al 57,5 nel 2019, e ha chiuso questo quindicennio con il 40,1 del maggio scorso.

Ma il dato più pesante di questa tornata elettorale è che ha perso la maggioranza in parlamento per la prima volta dalla fine dell’apartheid, e, pur rimanendo primo partito, è stato costretto ad aderire a un governo di coalizione.

Non solo Sudafrica

Il Sudafrica, però, in questo processo inesorabile di discesa costante dei partiti legati ai movimenti di liberazione, non è solo.

Uno dei primi movimenti indipendentisti africani a sperimentare il trend è stato lo United National Independence Party (Unip) dello Zambia. Salito al potere subito dopo l’indipendenza ottenuta nell’autunno del 1964, ha governato il paese per tutti gli anni Settanta e Ottanta grazie a un modello politico caratterizzato dal monopartitismo.

Dagli inizi degli anni Novanta, però, complici il malcontento della popolazione e un tentativo di colpo di Stato, fu introdotto un sistema multipartitico che ha portato, nel giro di un trentennio, alla quasi completa scomparsa dell’Unip.

Altro caso eclatante è quello del Chama Cha Mapinduzi (Ccm, “Partito della Rivoluzione”), la storica formazione della Tanzania fondata nel 1977 dal padre della patria Julius Nyerere, ideatore del cosiddetto socialismo africano, passato dall’80,28 per cento del 2005 al 58,46 del 2015.

Il ritorno a percentuali bulgare del 2020 (84,4 per cento) non deve trarre in inganno, è il frutto di una tendenza autoritaria del presidente Magufuli (morto nel 2021) che ha portato le opposizioni a boicottare in blocco le elezioni accusando il governo di militarizzare il processo.

Si potrebbero citare poi vari altri casi, come la Namibia, indipendente dal Sudafrica dal 1990, dove l’onnipotente Swapo ha perso la maggioranza parlamentare dei due terzi e il presidente Hage Geingob è sceso dal plebiscito dell’87 per cento del 2014 al 56 del 2019.

Decadenza

I motivi alla base di una simile decadenza dei partiti tradizionali africani sono vari. Alcuni di facile lettura: un conto è gestire una lotta di liberazione fucile alla mano e pianificare strategie militari per sconfiggere le potentissime forze coloniali, un altro è saper governare paesi lasciati in macerie degli europei, spesso passati attraverso terribili guerre, e continuare a farlo democraticamente nei decenni successivi.

Nelle guerre di indipendenza emersero grandi leader capaci di grandi visioni ed enormi capacità strategico-militari: un processo che contribuì a rendere le proprie persone e i partiti veri e propri miti.

Ma i miti, specie se traditi nella loro purezza e nell’idealismo originario o se si rivelano inadatti al governo, sono destinati a cadere. La diretta conseguenza della incapacità a governare, poi, è spesso il ricorso alla violenza o alla corruzione.

Come scrive Danai Nesta Kupemba in un recente articolo apparso sul sito della Bbc, «molti leader sono divenuti facili prede della corruzione, del clientelismo e sono ricorsi a brogli per vincere. Stanno facendo i conti con una popolazione affamata di cambiamenti».

La decadenza dei partiti tradizionali emerge, non a caso, in coincidenza di un risorgimento del panafricanismo nel continente che però ha connotati decisamente nuovi: oltre che col passato, e spesso presente, coloniale se la prende con le élite corrotte, inadeguate e spesso attaccate al potere come fossero monarchie, come nei casi del Camerun dove il 91enne Paul Biya è da 42 anni presidente o dell’Uganda, dove l’80enne Yoweri Museveni lo è da 38.

Le difficoltà che vive l’Africa oggi, è giusto sempre ricordarlo, sono ancora il frutto avvelenato del colonialismo.

Democrature giovani

Le democrazie e le democrature, come vengono chiamate in alcuni casi, sono estremamente giovani, le classi politiche hanno avuto pochissimo tempo per formarsi e, soprattutto, hanno ereditato paesi lacerati e lasciati esangui.

«Le profonde disuguaglianze razziali create dalle potenze coloniali», scrive David Soler Crespo, nel suo The Slow Death of Liberation Movements in Southern Africa, «sono qualcosa di unico nella storia. L’incapacità delle élite politiche africane a eliminarle o a gestire stati artificiali disegnati dagli europei, sono i motivi alla base della disaffezione degli elettori».

Alcuni paesi come il Sudafrica post apartheid hanno solo 30 anni di vita, la necessità di creare un’identità nazionale e istituzioni forti ha spinto i governi verso statalismo e burocratizzazione che hanno aumentato problemi e corruzione.

«Ma», dice Crespo alla Bbc, «se partiti storici si riappropriano degli ideali originari, ascoltano i giovani e ritrovano se stessi, potrebbero essere in grado di restare nella scena».

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