- L’ex funzionaria per la sicurezza è sopravvissuta al grande reality della Casa Bianca di Trump, dove si è ritrovata quasi per caso.
- L’infanzia fra i minatori del nordest dell’Inghilterra le ha permesso di capire meglio l’appeal dei populisti: «Berlusconi, Trump e Johnson sono intrattenitori che sanno capitalizzare i sentimenti di chi si sente dimenticato».
- Nell’ottobre scorso è uscito negli Stati Uniti There Is Nothing For You Here, il memoir in cui Fiona Hill racconta quanto le è accaduto dall’infanzia fino a Trump.
Il suo libro racconta la storia di una ragazza della classe operaia del nord dell’Inghilterra che finisce per ottenere una posizione di influenza e autorità a un oceano di distanza, negli Stati Uniti. Che rilevanza ha questa vicenda nel modo in cui vede e fa esperienza del mondo?
Ovviamente mi dà un grande vantaggio. Ognuno di noi vede attraverso una lente particolare non solo la propria vita, ma anche il mondo intorno a noi. Chi ha una posizione come quella che lei ed io abbiamo, di analisti politici, porta anche quella prospettiva. Io non faccio parte dell’élite, forse adesso, ma non lo ero quando ho cominciato. Ma c’è anche molta specificità di luoghi e tempi nella mia infanzia. Si è modellata grazie a una incredibile quantità di forze impersonali. Tantissime interazioni che ho avuto mi hanno dato uno sguardo diverso da quello delle persone con cui ho lavorato in seguito. Durante la mia infanzia e poi nella mia carriera mi sono sempre sentita un’estranea, una che guarda da fuori e vive una serie di esperienze molto diverse. E parte di ciò deriva anche dall’essere donna.
Ci può raccontare qualcosa del luogo in cui è cresciuta: qual era la cultura e come continua a influenzare il modo in cui vede il mondo?
Il Regno Unito sembra agli stranieri un luogo abbastanza monolitico. Ma l’Inghilterra, come entità politica, storicamente è passata attraverso molti cambiamenti e ha una componente regionale molto forte. Il luogo in cui sono nata, la contea di Durham, nel nord dell’Inghilterra, ha una storia molto particolare. Era un principato di vescovi. Dopo la conquista normanna era una specie di mondo a parte: i vescovi principi di Durham avevano sostanzialmente il compito di sorvegliare il confine con la Scozia. Potevano avere i propri eserciti privati e vivevano in castelli con insediamenti fortificati. L’altro aspetto importante della contea di Durham è che è stata uno dei centri della rivoluzione industriale. Era davvero il centro dell’estrazione del carbone e di tutte le attività industriali legate, che venivano da lì. C’erano treni merci per il trasporto del carbone, le acciaierie, la cantieristica costiera e l’esportazione di carbone dai principali porti e la prima ferrovia per passeggeri. All’indomani della Seconda guerra mondiale, per effetto della guerra, tutta quell’industria si dovette nazionalizzare. Il settore privato non era in grado davvero di recuperare. E questo è stato l’inizio della fine. Tutti lavoravano per il settore pubblico, in sostanza, e gli aspetti commerciali delle industrie hanno subito un duro colpo. In quel periodo si inizia a vedere un massiccio declino. Sono nata negli anni Sessanta.
A quell’epoca molte industrie erano in difficoltà. Non erano più redditizie, il mondo era andato avanti, c’era la modernizzazione, ci si muoveva verso la nuova economia della conoscenza con più automazione. E quando Margaret Thatcher entrò in carica nel 1979 lanciò una campagna di privatizzazione di massa. Negli anni Ottanta centinaia di migliaia di persone sono state improvvisamente licenziate, tutte in una volta. Dunque la mia regione è passata nel corso di un secolo dall’essere la culla e la fonte dell’innovazione della Rivoluzione industriale, ad essere sostanzialmente fonte della disoccupazione di massa.
Douglas Alexander, politico scozzese, ha partecipato a un podcast qualche tempo fa. Mi ha raccontato che quando faceva campagna elettorale per il partito laburista nel suo vecchio collegio durante le ultime elezioni, si sentiva come se stessero offrendo alle persone un viaggio al museo minerario locale, quando in realtà volevano andare a Eurodisney. Cosa succede a un paese che assiste all’erosione dell’orgoglio per la cultura della classe operaia? È d’accordo con Douglas su questo?
Sì, condivido. Lo conosco bene e il collegio elettorale che ha rappresentato in Scozia è molto simile. Le persone sono rimaste, per molti aspetti, intrappolate nel passato. C’è un forte senso di comunità e cultura che deriva dal posto di lavoro. Si capisce davvero come una particolare forma di lavoro può manifestarsi nella cultura e nella lingua. Intorno alle miniere di carbone si era sviluppata una lingua. C’erano vari dialetti a cui furono persino dati dei nomi nel nordest dell’Inghilterra. E nei bacini carboniferi di Durham c’era una lingua parlata dai minatori e dalle loro famiglie chiamata Pitmatic, da pit, “cava”.
Si trattava perlopiù di vari riferimenti comuni agli strumenti che usavano o alle pratiche di lavoro, parole che non si usavano in nessun’altra parte del paese. C’erano tutti i tipi di passatempi, le loro canzoni, i loro club culturali, dalle squadre di calcio ai circoli di lettura e di disegno. Da piccola mi colpì leggere di questi famosi scrittori sovietici come Evgenij Zamjatin, che poi in seguito studiai, che venivano nel nord dell’Inghilterra per studiarlo. George Orwell nella Strada di Wigan Pier scriveva del tempo passato delle miniere, non soltanto nello Yorkshire e nelle Midlands, ma anche nel nordest. Era quindi un luogo molto stratificato, con tanti orientamenti politici; erano i minatori di Durham di solito a fissare l’agenda del movimento laburista nel Regno Unito e anche la politica del partito. Cercare di spiegare questo mi ha davvero instradato nel mio tentativo di spiegare fenomeni più ampi.
Come ha finito per lasciare quella comunità e andare a studiare a Mosca e ad Harvard?
Innanzitutto il mio libro s’intitola There’s Nothing for You Here, che è quello che mio padre mi ha detto quando è diventato chiaro che a scuola ero abbastanza brava da potermi iscrivere all’università. I miei genitori volevano davvero che ci andassi. Mio papà aveva lasciato la scuola a quattordici anni; era stato spinto ad andare a lavorare in miniera e a non continuare gli studi. Mia mamma aveva lasciato la scuola a sedici anni per diventare infermiera. Nessuno dei due però ha avuto quel genere di opportunità di istruzione che hanno incominciato a diffondersi e presentarsi nel periodo successivo alla mia nascita, negli anni Sessanta. L’autorità locale dell’istruzione pagava tutte le tasse e offriva una borsa di studio agli studenti come me provenienti da ambienti poveri e che avevano le qualifiche richieste e la capacità di studiare all’università. Mio padre mi disse: «Senti, se ottieni questi titoli non potrai tornare qui. Dovrai iniziare a pensare a fare qualcos’altro e dove altro andare». Il motivo per cui invece ho iniziato a studiare il russo è stato il contesto storico.
Era il periodo delle paure della guerra, il culmine della Guerra fredda, la cosiddetta crisi dei missili Euro che andò dal 1977 al 1987, l’idea che l’Unione sovietica e gli Stati Uniti potessero entrare in uno scontro nucleare. Ho deciso di studiare il russo quasi come fosse una risposta pratica, per cercare di capire: se ci dovessimo trovare letteralmente di fronte all’Armageddon nucleare, perché è successo?
Mio zio Charlie, di cui parlo nel libro, un giorno disse a mio padre: «La tua Fiona è brava in lingue», studiavo il francese e il tedesco, «dovrebbe studiare il russo e cercare di capire perché tentano così maledettamente bene di farci saltare in aria. Era stato nei convogli atlantici che rifornivano l’Unione sovietica dal Regno Unito, dal Canada e dagli Stati Uniti durante il culmine della Seconda guerra mondiale, e si chiedeva perché quelli che un tempo erano stati gli alleati in guerra, ora sembravano nemici implacabili. Cosa era andato storto? Perché i rapporti con l’Unione sovietica si erano così deteriorati dal 1945 in poi? Così ho deciso di studiare il russo, pensando: “Forse diventerò un interprete. Forse potrei essere d’aiuto nelle trattative”. Ho avuto la possibilità di andare alla St. Andrews University in Scozia, dove ho potuto partire da zero nello studio del russo, che non si insegnava nelle scuole della mia città. Ovviamente però quelli come me erano discriminati: solo il 5-6 per cento dei ragazzi nel Regno Unito, in qualunque caso, andava all’università.
La probabilità che una persona proveniente dalla classe operaia andasse all’università era bassa ovunque. Seguire questa carriera sembrava improbabile. Inoltre, non avevo i soldi per gli studi. Non avevo soldi per tutte le altre cose essenziali: libri, stage, programmi estivi. A volte si hanno delle opportunità ma non le si possono cogliere perché non si hanno i mezzi per farlo.
Dovevo essere molto creativa. E sono anche stata molto fortunata a trovare altri finanziamenti. La Durham Miners Association mi ha dato dei soldi, e così il mio Rotary Club locale, buoni amici, parenti, vicini: ho avuto tutti i tipi di mentori e benefattori che si sono fatti avanti fondamentalmente per far sì che potessi continuare gli studi. Sono stata molto fortunata a vincere delle borse di studio. Molte cose di cui ho potuto godere sono poi scomparse. Quando ci ripenso e medito sul mio percorso, capisco che non è una strada per tutti. Le cose che ho fatto non sono così semplici da fare. Non erano facili all’epoca, ma ora sono impossibili per le persone che hanno una provenienza simile.
Il risentimento per la mancanza di opportunità di vari gruppi in diversi contesti è uno dei motori della politica populista. Come è possibile che i politici, che spesso sono parte dell’élite – siano essi Boris Johnson, Donald Trump o Silvio Berlusconi – siano stati in grado di far leva su questo tipo di risentimento della classe operaia in modo politicamente efficace?
Johnson, Berlusconi e Trump: tutti e tre sono intrattenitori. Berlusconi aveva televisioni e società di media e comunicazione; Trump emerge non solo come famoso uomo d’affari, ma tutta la sua ascesa ai vertici avviene attraverso i reality; Boris Johnson è un giornalista che ha anche una certa prontezza di spirito, una sorta di talento per la commedia o l’improvvisazione. Certamente è stato ben formato come oratore nel contesto di Eton da cui proviene, nei vari club e nei salotti di cui faceva parte a Oxford. Tutti e tre, in un certo senso, hanno una qualità camaleontica.
Possono in qualche modo adattare il loro personaggio agli interlocutori. E per certi versi sono geni politici. Hanno un talento nel captare il momento e alimentare il malcontento. Credo che Berlusconi e Trump si siano sentiti mancare di rispetto in società. Johnson fa parte dell’élite, ma ha una sorta di calore ed empatia nelle sue interazioni con le persone. È coinvolgente e divertente. Credo che anche questo abbia un peso. Sono ottimi politici al dettaglio. Di conseguenza attingono tra le lamentele, le canalizzano. Dicono alla gente che risolveranno i problemi. Ma c’è un aspetto che ha a che fare con la loro capacità di intrattenimento e penso che non sia da sottovalutare. In parte è un approccio “panem et circensem”. Nel nord dell’Inghilterra la gente seguiva il calcio, il football e altri passatempi per distrarsi, per svago. In un certo senso Berlusconi, Trump e Johnson fanno la stessa cosa: offrono intrattenimento. Se sei nella loro squadra, se stai dalla loro parte, vinceranno per te. Andranno là fuori e combatteranno per te. Faranno delle cose per te, ma interagendo con te, ascoltandoti. Non parlano solo alle persone, interagiscono. Fanno sentire alla gente che sono in contatto, che contano.
Quindi ha studiato ad Harvard e poi è passata tra lavori a tempo pieno e periodi al governo. Poi le è stato chiesto di entrare nella squadra di governo di Trump. Può raccontarci di quel momento?
È stato un po’ uno shock. Non me lo aspettavo. Non avrei mai neanche sognato di finire proprio in quella specifica amministrazione. Non sono una politica. Sono stata nel governo come funzionario dell’intelligence sotto George W. Bush e nel primo anno dell’amministrazione Obama. Ma in realtà quello di Trump è stato un caso. Non sono stata reclutata dall’amministrazione; ero stata assunta dal National Intelligence Council. Mi avevano preso dalla Brookings Institution ed ero in prestito. Con Trump è capitato che un paio di persone che avevano lavorato per la campagna elettorale mi notassero per il mio precedente lavoro al National Intelligence Council e per il libro su Putin che avevo scritto con il mio collega Clifford Gaddy: Mr. Putin: Operative in the Kremlin. Era una risposta diretta agli sforzi della Russia di interferire nelle elezioni del 2016 e un tentativo di capire come rispondere. In pratica mi è stato chiesto di entrare, sedermi con Trump e spiegargli Putin. Chiaramente non è mai successo. Non aveva alcun interesse ad ascoltare me, una donna di mezza età. Indipendentemente dal mio background e da quello che avevo da dire, voleva sedersi con Putin in persona. Rex Tillerson, l’ex Ceo di Exxon Mobil che era segretario di Stato, avrebbe dovuto fare le presentazioni. Ma questa era l’idea generale e non mi riguardava.
Nel 2016 un’operazione di propaganda e influenza russa davvero sofisticata era sfuggita al nostro controllo per gli effetti dei social media, per l’acuta vulnerabilità degli Stati Uniti a quel tipo di operazione in quel momento specifico, con il caos delle elezioni presidenziali. Ad ogni modo, si è trattato di un’elezione davvero insolita, e i russi hanno deciso di tuffarsi nella confusione.
Ne è risultato un disastro domestico. Ne sperimentiamo ancora le conseguenze. Quando mi è stato chiesto, ho sentito davvero fortemente che dovevo fare qualcosa. Solo che non mi aspettavo che mi venisse chiesto.
Per me è ovvio che la Russia abbia tentato di interferire nelle elezioni; non è ovvio invece che impatto abbia effettivamente avuto. È chiaro che Trump e la campagna sono stati molto ricettivi a varie forme di aiuto, ma non capisco quanta differenza abbia fatto. Cosa c’era in ballo nell’interferenza russa?
Ci sono due questioni qui. Innanzitutto, è un fatto che la Russia ha interferito. E come ha detto lei, è un fatto anche che le persone che lavoravano alla campagna di Trump avevano interesse a prendere da qualsiasi fonte informazioni che avrebbero aiutato la campagna per sconfiggere Hillary Clinton. Inoltre, anche nella campagna di Clinton si stava giocando sporco. Non è un dato di fatto però che i russi abbiano influenzato l’esito effettivo delle elezioni. Anche se qualcuno ha detto che è andata così, penso che sia estremamente difficile dire che più di settantamila persone in tre contee di tre stati che hanno orientato il Collegio elettorale a favore di Trump siano state persuase dalla propaganda russa o da account immaginari che gli agenti russi hanno creato su piattaforme come Twitter e Facebook.
Trump è stato eletto da americani veri motivati dalle proprie preferenze politiche personali. È anche un dato di fatto però che la percezione dell’interferenza, e il fatto stesso dell’interferenza - perché i russi sono intervenuti - hanno avuto un enorme impatto sulla nostra politica interna: la Russia, per la prima volta dalla Guerra fredda, è diventata un problema nella nostra politica interna.
Ci può raccontare del periodo nell’amministrazione? Come è riuscita a rimanere fedele ai propri principi e a essere una delle poche persone uscenti dall’amministrazione in grado di tenere la testa alta?
Prima di tutto mi sono concentrata esclusivamente su aspetti di sicurezza nazionale e ho cercato di affrontare un problema multiforme. In tanti mi hanno confidato le proprie convinzioni. Alcuni mi hanno detto che non mi avrebbero più rivolto la parola se avessi preso una certa decisione, perché erano assolutamente convinti che Trump fosse stato eletto per intervento dei russi. Non mi sarei fatta coinvolgere (così pensavo all’epoca) nella politica interna e nella campagna elettorale. Ben presto mi sono resa conto di essere stata ingenua, che questa era una campagna permanente, che avrei dovuto procedere con molta attenzione ed essere pronta ad andarmene se fossi diventata parte del problema. Nel 2019 era molto chiaro che c’erano problemi su tutti i fronti. Volevo lasciare la posizione in modo da poterla passare ad altri. Me ne sono andata proprio la settimana prima della fatidica telefonata (con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ndr). Ma ho giurato sulla Costituzione. Mi sono occupata di sicurezza nazionale e ho cercato di farlo. Quando poi sono stata chiamata a testimoniare, non c’era dubbio che l’avrei fatto, perché per tutto il tempo avevo parlato dietro le quinte alla mia immediata catena di comando. Ho avuto la fortuna di avere persone come il generale H.R. McMaster e l’ambasciatore John Bolton, che sono patrioti e persone molto rigorose, ma allo stesso tempo persone informate da tutto il governo, che sono state in precedenti amministrazioni e che facevano il loro lavoro. Ora, qualcuno ha un’agenda molto forte. Penso che la gente conosca bene l’ambasciatore Bolton e molte delle sue opinioni, ma si tratta comunque di un patriota, dedicato alla difesa della Costituzione e dei suoi principi. Ero abbastanza sicura di poter parlare liberamente, ma ovviamente sono stata sotto attacco politico dall’interno, nell’ambiente domestico, per tutto il tempo in cui sono stata lì. E questo è stato surreale.
Ma devo dire che ero preparata, anche grazie ai miei studi in Unione sovietica. In vari momenti è stato come trovarsi nel mezzo delle purghe staliniane, ma non sono stata spedita in un Gulag, né tanto meno schierata davanti a un plotone di esecuzione. Mi è stato anche possibile scavare in profondità nella mia infanzia e sviluppare una certa resilienza, che si è costruita lì in circostanze molto dure e difficili. Non ero lì per vantaggi e privilegi, e non ero lì per nessuno scopo politico. Non mi aspettavo che la politica interna andasse nella direzione in cui è andata. Dico solo che sono rimasta estremamente scioccata da quanto sia sporca la politica americana. Ci sono così tanta corruzione e così tanto guadagno privato al primo posto nella nostra politica, in questo particolare frangente, che stiamo ripetendo molte delle cose che abbiamo visto in tanti contesti diversi. E ci vorranno persone che difendano i principi della democrazia per contrastare questo.
Ha parlato del fatto che è stata la sua missione sin dall’inizio quella di pensare a come gestire le nostre relazioni con la Russia. Oggi l’America continua ad avere relazioni molto contraddittorie con la Russia e, naturalmente, abbiamo quella che alcune persone chiamano una nuova Guerra fredda con la Cina. Dobbiamo rassegnarci all’idea che i tratti fondamentali delle relazioni internazionali nei prossimi decenni consisteranno in una grande rivalità di potere? E cosa può fare la politica estera americana?
Dovremo concentrarci molto sulla gestione delle crisi, come facevamo durante la Guerra fredda. Stanno emergendo nuove forme di competizione e rivalità tra grandi poteri. Penso poi che ci siano alcune cose che possiamo fare. Innanzitutto, in passato abbiamo sempre avuto successo, non solo con la forza delle nostre braccia, ma con la forza e il potere del nostro esempio. E il nostro esempio non è stato eccezionale, non solo degli Stati Uniti, ma dell’occidente e dell’Europa più in generale. L’altra questione è trovare una nuova cornice: in realtà ci troviamo tutti in uno stato di comune minaccia esistenziale, ma sembra che non l’abbiamo vissuta tutti. La pandemia avrebbe dovuto concentrare le cose. Non l’ha ancora fatto, ma queste ondate successive di varianti potrebbero riuscire: la comparsa e la paura di nuove malattie infettive, la prossima pandemia. Dobbiamo fare di meglio come comunità internazionale per rispondere ad essa. Poi il cambiamento climatico. Ora stiamo iniziando a vedere che è altamente improbabile che raggiungeremo uno qualsiasi degli obiettivi climatici che abbiamo stabilito. Non conterremo l’aumento della temperatura, quindi dovremo ridurre gli obiettivi. E dovremo adattarci, e dovremo costruire resilienza. Sarà globale, perché siamo tutti coinvolti. E ovunque ci saranno rifugiati, migranti climatici e disastri climatici. Lo vediamo già.
Quindi spero che possiamo iniziare a fare almeno dei piccoli passi per lavorare insieme. Voglio dire, chi se ne importa della vostra grande competizione per il potere, se sarete tutti distrutti da un disastro climatico? Infine stiamo per avere un’altra grave dislocazione economica del tipo che ho vissuto da bambina negli anni Settanta e Ottanta. Stiamo passando all’intelligenza artificiale, un diverso tipo di economia. Ci stiamo muovendo verso nuove tecnologie verdi. La Cina è davanti a tutti in questo e tutti dovremo recuperare. La gente vivrà in un mondo molto diverso da quello di oggi.
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